La Lettura, 7 ottobre 2018
Primavera 1875, Arthur Rimbaud arriva a Milano
Nella primavera del 1875, Arthur Rimbaud arriva a Milano. Vi resterà per circa 40 giorni, ospite di una «vedova molto civile» che abita in piazza del Duomo al numero 39, «terzo piano». Del suo soggiorno milanese non sappiamo nient’altro. Restano senza risposte tutte le domande: chi era la signora che l’aveva accolto? Lo aveva raccolto per strada stremato dalla fame? Oppure le era stato indirizzato dall’avventore di un caffè? E lui, Rimbaud, che cosa ha visto, chi ha incontrato, perché si è trattenuto così a lungo? L’impresa di Edgardo Franzosini (Rimbaud e la vedova, Skira: in copertina il bellissimo disegno di Giacometti) che vuole scoprire le tracce del poeta del Battello ebbro a Milano è destinata a fallire. Nonostante la caparbia consultazione di ogni genere di fonti (i giornali, la guida Bernardoni che censiva soprattutto imprese commerciali, la descrizione dei caffè compresi quelli che servivano assenzio alla moda di Parigi), questa caccia al tesoro non porta nessun risultato. È solo l’itinerario romanzesco di un cercatore, che alla fine ci propone una foto di gruppo dove però il personaggio principale è solo una macchia bianca.
Due solo le «prove» del primo passaggio in Italia di Rimbaud (il secondo avverrà due anni dopo, ma allora lo stesso Rimbaud descriverà in una lettera il Gottardo coperto di neve): l’indirizzo vergato a mano su un biglietto da visita sotto le iniziali stampate A.R., inviato dal poeta all’amico Ernest Delahaye, suo ex compagno di collegio. L’altra prova si trova nei registri del consolato francese di Livorno, che nel giugno del 1875 rimpatria Rimbaud colpito da insolazione. Le altre notizie ce le forniscono Paul Verlaine (I poeti maledetti, 1883), e Paul Izambard, il professore che per primo comprese il geniale talento del giovanissimo allievo, in una lettera del 1911. Verlaine e Izambard scrivono anni dopo il soggiorno milanese di Rimbaud. Si basano entrambi su testimonianze di seconda mano. Ma in nessun caso ci viene detto qualcosa su come Rimbaud trascorse quei giorni a Milano. Del resto, ci avverte Franzosini, l’edificio al 39 di piazza del Duomo non esiste più: fu abbattuto e, anche volendo, non si saprebbe dove apporre una lapide.
Appassionato biografo di personaggi minori (lo storico della peste di Milano, Giuseppe Ripamonti; Bela Lugosi, il Dracula degli schermi hollywoodiani), puntiglioso detective convinto che nel dettaglio apparentemente insignificante si nasconda la verità, Franzosini qui fallisce il suo obiettivo. Ma proprio in questo sta il fascino della sua inchiesta, del suo ostinato cercare un personaggio che non si riesce a trovare, che forse non voleva farsi trovare. Colpisce nel testo di Franzosini il suo quasi non tener conto della grandezza del poeta, il suo muoversi sulle tracce di un viaggiatore qualunque senza soldi in tasca.
Ma in fondo Franzosini ha ragione, sì perché il Rimbaud che arriva a Milano è «un altro Rimbaud», non è più il visionario scrittore di versi e prose destinati a cambiare il corso della poesia moderna. Lui che aveva detto che il poeta deve diventare un «veggente» e per far questo aveva praticato «un lungo, immenso, ragionato disordine di tutti i sensi», dal 1874 ha chiuso con la letteratura. Pubblicata a sue spese Una stagione all’inferno, lascia senza pagare quasi tutte le copie allo stampatore di Bruxelles e comincia un’altra vita. L’amico Delahaye racconta che Rimbaud non si ricorda neppure di avere scritto poesie, prova fastidio se qualcuno gli parla di libri, «il suo estro poetico si è esaurito». Così, il «nuovo Rimbaud» attraversa l’Europa a piedi, tenta di arruolarsi nella marina americana, poi lo troviamo mercenario a Giava nell’esercito coloniale olandese. Poi sarà a Cipro come mastro muratore, in Egitto e infine ad Aden, in Yemen, per lavorare in una agenzia di importazione di caffè. Apre una succursale a Harar, in Abissinia, scrive dei resoconti geografici, infine si improvvisa mercante d’armi. Gli anni dal 1875 alla morte sembrano realizzare la profezia di quando, ancora giovanissimo poeta, scriveva «io è un altro». In realtà sono una sorta di viaggio verso l’autodistruzione che arriverà puntualmente nel 1891 quando, per un’infezione a una gamba, viene imbarcato per Marsiglia. All’ospedale dove lo ricoverano gli amputeranno la gamba senza peraltro arrestare la cancrena; e qui il 10 novembre del 1891 muore con accanto la sorella Isabelle che si premura di portargli un prete al capezzale.