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 2018  ottobre 07 Domenica calendario

Intervista a Grazia Neri

Grazia Neri, la ragazzina che non sorrideva mai, portata dalla mamma un pomeriggio intero dal fotografo per avere una foto tessera con un’espressione poco meno che triste. Poi lei ha rivoluzionato il mercato dell’immagine in Italia, non è un bello scherzo del destino?
«Ah, si sta riferendo agli anni subito dopo la guerra! Sì, ero l’unica bambina che piangeva quando “scoppiò” la pace. Sul terrazzo delle Marcelline, tante ragazze nella divisa del collegio, ad acchiappare al volo la cioccolata e i chewing gum lanciati dai soldati americani. Le altre saltellavano felici, a me scendevano i lucciconi. Piangevo per papà, morto di malattia a trent’anni nel gennaio del 1945, quando io ne avevo nove. Qualche giorno prima di lasciarci mi disse: “Vedrai Grazia, al massimo in marzo sarà tutto finito e torneremo a Milano, sarà bellissimo”. Invece non c’era più. Mamma dovette mettermi in collegio per poter lavorare e non avevo più il conforto dei libri che papà mi aveva insegnato a leggere. Tutto proibito. Di notte avevo gli incubi, rivedevo una scena vissuta nel ’44 a Paderno Dugnano, dove eravamo sfollati, mentre andavo a scuola con un’amica: un aereo planava su di noi, ci gettavamo a terra terrorizzate; poi alzavo gli occhi e vedevo il pilota fissarci; pensavo di morire, invece la bomba veniva sganciata più in là».
Saranno entrate nei suoi incubi altre cento volte scene simili: lei ha rappresentato i più grandi fotografi di guerra...
«Purtroppo ci si fa il callo. Il più grande, quello che riusciva a darmi sempre un cazzotto nello stomaco, è James Nachtwey. Non ha fatto altro che fotografare guerre e l’uomo in situazioni drammatiche; l’hanno anche ferito ed è vivo per miracolo. L’11 settembre, mentre crollavano le Torri Gemelle, fu lui a realizzare il servizio più bello. Oddio, bello non è la parola giusta: il più etico, politico, straordinario. Mi vengono ancora i brividi. L’altra mia passione è David Burnett: magnifico il suo racconto della Rivoluzione iraniana, ma David sa anche raccontare la politica, la strada, lo sport come nessun altro. Non credo serva una guerra per cogliere l’anima del mondo. Sergio Larrain, ad esempio, nei suoi reportage “tranquilli” ha testimoniato situazioni irripetibili. Poi ci sono i grandi amici, come Douglas Kirkland, simpatia contagiosa. O il più cattivo di tutti, Harry Benson, esigente e geloso. Mi fece piangere perché avevo organizzato una mostra a Kirkland: “Prima dovevi esporre le mie immagini, quello non sa fotografare!”. Io, timidamente: “Beh, però...”, e lui giù rabbia. Lavoravo con Annie Leibovitz, Christopher Morris, Mary Ellen Mark, tutti mi insegnavano qualcosa. Tra i primi a darmi l’imbeccata per capire la composizione di un’immagine fu Gianni Berengo Gardin. Da lì non ho smesso di imparare. Anche dalle storie strazianti, come quella di Kevin Carter, se lo ricorda? Scattò, in Sud Sudan, la fotografia del bambino con l’avvoltoio alle spalle in attesa della sua morte. Vinse il Pulitzer, poi qualcuno cominciò a nutrire dubbi sull’autenticità dello scatto, lui andò in depressione e si suicidò».
Lei mosse i primi passi in un’Italia in subbuglio, in quel Sessantotto...
«Nel ’68 feci una scelta etica insieme ai fotografi. Non davamo esclusive: tutti dovevano sapere cosa stava accadendo. C’era gran andirivieni in agenzia, mi raccontavano quel che vedevano, dove si appostavano, cosa stava accadendo. Molti furono arrestati. Un giorno la polizia mi disse che stavano tenendo sotto controllo il ristorante Alfio, in via Senato, di fronte alla nostra sede. Volevano le chiavi dell’agenzia perché sabato avrebbero fatto un appostamento. Quella sera lo raccontai in casa pensando: curioso, non mi hanno chiesto di stare zitta. Mio figlio mi fece notare: “Alfio è chiuso il sabato”. Immagino che abbiano frugato nei cassetti. Chissà che cosa pensavano di trovare».
Come le venne l’idea di aprire un’agenzia fotografica, lei, donna, in un mondo di uomini?
«Come credo abbia capito, ho avuto un’infanzia non proprio felice. Mi sentivo inadeguata, insicura, incapace di essere come gli altri. Il compagno di mamma ebbe l’idea di iscrivermi alla Manzoni, una scuola di lingue straniere. Fu la mia fortuna. Superata la maturità, il giorno dopo lavoravo in un’agenzia di piazza Cavour che vendeva articoli inglesi ai quotidiani italiani. C’era anche un laboratorio fotografico ma io mi occupavo esclusivamente dei testi, fino a quando il titolare si ammalò, sparì da un giorno all’altro, e dovetti seguire tutto. Mi ammazzavo di lavoro. Poi ero di una timidezza esasperante: la sede era al quarto piano e salivo le scale a piedi per evitare di trovarmi sola con uomini in ascensore, tanto che, per corteggiarmi, il mio primo marito mi aspettò davanti alla porta d’ingresso».
Un appostamento. Come andò?
«Gaetano Neri lavorava al Corriere Lombardo. Aveva due biglietti per un balletto. Accettai, e cominciò la nostra storia. Quando si parlò di matrimonio mi tremarono le gambe: alla timidezza si aggiungevano i libri che avevo letto di Simone de Beauvoir. Misi da parte gli incubi e ci sposammo nel ’57. Due anni dopo nacque Michele. Mi ero rimessa in carreggiata quando, nel ’63, cominciai ad avvertire dolori all’addome. Nessun medico capiva di che cosa si trattasse. Stavo sempre peggio. Il mio capo, quello per cui mi ero dannata quando si era ammalato, mi licenziò. Finii al Fatebenefratelli, convinta di non farcela. Da quattro anni avevo nel portafogli il numero di telefono di un neurologo amico del pediatra di Michele. Me l’aveva dato perché soffrivo spesso di mal di testa, ma non l’avevo mai chiamato. Disperata feci il numero. Dopo molte insistenze la segretaria me lo passò. Gli raccontai i miei problemi e gli dissi che ero in ospedale in cura dal medico tal dei tali. Mi chiese: “A che piano è?”. Al primo, dissi. Bene, scappi dalla finestra, io non mi metterei mai nelle mani di quel collega».
Malata, disoccupata, risprofondata nelle sue paure: non era il momento migliore per aprire un’agenzia. Cosa le venne in mente?
«Aspetti, ci arrivo. Andai all’appuntamento con il neurologo, Renato Boeri. Più che altro andai incontro a un destino. Aprii la porta, mi venne incontro, mi face accomodare e cominciò a farmi domande. Fu un amore improvviso, un colpo di fulmine come quelli che si pensa esistano solo nelle fantasie delle sartine. Mi ricoverò al Besta e lentamente guarii. Nel frattempo, anche lui si era innamorato di me. Ma non poteva andare avanti, eravamo entrambi sposati e decidemmo di strapparci questa cosa dal cuore. Quella faccia di bronzo del mio ex capo, saputo che ero guarita, mi chiese di tornare. Va bene, dissi, ho bisogno di guadagnare, ma appena posso mi metto in proprio. “Provaci pure, tanto non ce la farai mai”».
Quindi l’agenzia nacque per dimenticare un amore impossibile?
«No, ci riuscii perché quell’amore divenne possibile. Sei mesi dopo, Renato mi chiamò e mi invitò a colazione per verificare se stavo davvero bene. Mentre mi alzavo da tavola disse: “Ho parlato con mia moglie e abbiamo deciso di separarci, se tu ci sei ancora potremmo andare a vivere insieme”. Fui sbalestrata: sentivo che avevo bisogno di una guida, mi mancava qualcosa, avevo sofferto troppo la solitudine. Renato mi diede la forza di avviare l’agenzia. Mica per altro, per il solo fatto di esistere, mi rassicurava, mi faceva sentire che l’infanzia disgraziata non mi aveva danneggiato. Parlai con mio marito e, dopo i primi momenti difficili, restammo buoni amici».
Per oltre quarant’anni Grazia Neri ha significato fotografia di qualità. Qual è stato il suo segreto?
«Fin dal primo giorno mi sono rifiutata di rappresentare i fotografi che non stimavo. Ma quello è stato un mio principio morale. Il segreto è semplice: ho imparato dagli americani a far rispettare il copyright, ho pagato i fotografi puntualmente tutti i mesi e ho mantenuto buoni rapporti con i concorrenti. Non potevo mica rappresentare tutti. Dissi persino di no alla Magnum, per evitare di mettere in concorrenza i loro bravissimi fotografi con quelli che già erano con me. Poi mi sono guadagnata la fiducia dei giornali, sempre pronti a farsi la concorrenza tra loro. E non era facile, anche perché il più bravo dei miei venditori, Giovanni Giachi, aveva un caratteraccio e non accettava di fare salotto davanti alle stanze dei direttori. Arrivarono a chiuderlo a chiave in uno sgabuzzino per evitare che portasse le esclusive alla concorrenza».
Quando capì che quel mondo era finito?
«Abbiamo chiuso nel 2009, ma dieci anni prima avevo già immaginato tutto. Al festival della fotografia di Perpignan ci riunirono in una sala ovale e ci spiegarono che con le nuove tecnologie sarebbe stato tutto più semplice. Si caricavano le immagini su data base e i giornali potevano prenderle direttamente. Alzai la mano: “Così finiranno le esclusive”. “Grazia, sei la solita agitata. Aspetta e vedrai”, disse Hubert Henrotte, direttore della celebre agenzia Sygma. Abbiamo visto. Ma non volevo fallire, così ho pagato tutti, ho diviso milioni di foto e chiesto ai fotografi se le rivolevano o potevo donarle al Museo della fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo». 
Nostalgia?
«L’agenzia era un luogo morale ma anche lieve, una stazione ma anche una scuola. Era una selezione dell’essere, della vita, la scelta di quel che accadeva. Il mondo va avanti ma credo che oggi i Nachtwey e i Kirkland farebbero fatica a diventare quel che sono».