La Stampa, 7 ottobre 2018
Cernobil riparte dall’energia solare
Una centrale a energia solare nel cuore di Cernobil. A 32 anni dal più terribile disastro nucleare della storia, l’Ucraina torna a sfruttare la Zona di Esclusione ad alta radioattività, che dista appena un centinaio di chilometri da Kiev. Ma questa volta l’obiettivo è produrre elettricità nel rispetto dell’ambiente attraverso le energie rinnovabili.
I primi 3.800 pannelli fotovoltaici sono già stati installati, hanno una potenza complessiva di un megawatt e soddisferanno il consumo di energia elettrica di 2.000 appartamenti. Sono stati piazzati ad appena cento metri dal famigerato reattore numero 4 della centrale di Cernobil. Una scelta che ha un grande valore simbolico.
Fu un test finito male in questo reattore a sconvolgere il mondo e contaminare vaste regioni d’Europa costringendo decine di migliaia di persone ad abbandonare le loro case. Nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1986, un’esplosione fece saltare in aria il coperchio di 500 tonnellate del reattore numero 4 sprigionando nell’atmosfera nove tonnellate di scorie radioattive. Era l’1.23 del mattino. Le fiamme furono domate solo il 6 maggio, dieci giorni dopo. Le radiazioni uccisero nel giro di pochissimo tempo almeno 31 tra tecnici della centrale e vigili del fuoco. Ma le vittime furono molte di più. Difficile dire esattamente quante. Le stime variano da alcune migliaia fino a centinaia di migliaia di decessi. Tumori, leucemie, cardiopatie e malformazioni sono le tragiche conseguenze dell’incidente, che continua a uccidere ancora oggi. Ucraina, Bielorussia e alcune regioni della Russia occidentale sono le zone più colpite.
Di certo le autorità sovietiche gestirono la catastrofe nel peggiore dei modi: dapprima cercarono di nasconderla, poi, messe di fronte all’evidenza, tentarono di minimizzare sulla sua reale gravità. Centinaia di migliaia di liquidatori furono mandati a limitare i danni della catastrofe senza protezioni adeguate. Una missione che spesso equivaleva a morte certa. Pripjat, ad appena cinque chilometri da Cernobil, fu evacuata solo nel pomeriggio del 27 aprile, ben 36 ore dopo la fuga radioattiva. Era una città modello costruita per i lavoratori della centrale, adesso è una città fantasma.
La Zona di Esclusione
Non si può voltare completamente pagina. La Zona di Esclusione, che ha un raggio di 30 chilometri, non sarà idonea alla vita umana per 24.000 anni. Un’eternità. Si può però lanciare un segnale e cercare di tenere sotto controllo la situazione. I pannelli fotovoltaici sono un passo in questa direzione. La società ucraino-tedesca Solar Cernobil LLC ha investito un milione di euro nel progetto, che consente di tornare a produrre elettricità a Cernobil a 18 anni dalla chiusura della centrale nucleare, avvenuta solo nel dicembre del 2000, cioè 14 anni dopo l’incidente. «Non si tratta semplicemente di un’altra centrale a energia solare. È veramente difficile sottovalutare il significato emblematico di questo lavoro», afferma l’amministratore delegato di Solar Cernobil, Yevghen Variaghin.
Kiev punta sempre di più sulle energie rinnovabili. Tra gennaio e settembre, la produzione di elettricità da queste fonti pulite è cresciuta di 500 megawatt, il doppio rispetto all’aumento registrato lo scorso anno. I motivi sono economici e politici: l’Ucraina considera la Russia un Paese invasore a causa dell’annessione della Crimea e del sostegno del Cremlino ai separatisti del Donbass e per questo vuole ridurre la propria dipendenza dal gas russo.
I pannelli di Cernobil sorgono su un terreno di 1,6 ettari a ridosso del reattore numero 4, racchiuso dal 2016 in una nuova struttura protettiva in acciaio progettata per resistere almeno cento anni. Si tratta di un colosso largo 275 metri e alto 108, come un palazzo di 30 piani. La sua realizzazione, finanziata dalla Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e da 40 governi, è costata un miliardo e mezzo di euro. Il nuovo «scudo» serve ad evitare ulteriori fughe di materiale radioattivo. Sostituisce il vecchio sarcofago di cemento armato costruito in fretta e furia tra il luglio e il novembre del 1986: una struttura ormai da tempo insufficiente e malandata.