La Stampa, 7 ottobre 2018
“Il general Cadorna s’è mezzo ’mbicillito”. Grande guerra, armiamoci e cantate
La circolare del 1916 del generale Luigi Cadorna, emanata circa un anno dopo l’entrata in guerra dell’Italia, esortava gli alpini a non ubriacarsi. E minacciava anche gravi pene per i soldati che praticavano la vergognosa consuetudine di dare il nome del capo di stato maggiore ai muli più cocciuti. Mai l’avesse detto! La truppa gli obbedì immediatamente ma si guardò bene dal rinunciare alla presa in giro. Così il responsabile della disfatta di Caporetto divenne il bersaglio di un’infinità di canti e di stornelli che circolavano in gran segreto.
«Il general Cadorna davvero è un gran portento / con undici avanzate / ha perso... il Tagliamento! / Bom bom bom al rombo del cannon» gorgheggiavano sbeffeggianti i militi di tutte le armi. Oppure «Il general Cadorna ha scritto alla regina / se vuoi vedere Trieste compra una cartolina». L’indignazione espressa tramite serenate e affini raggiunse il diapason nel giugno del 1917 quando arrivarono le cartoline precetto ai ragazzi del 1899 e poi ai «pupi» del 1900: «Il general Cadorna s’è mezzo ’mbicillito / l’à ciamà ’l novantanove che ancora ciuccia il dito». «Il general Cadorna ha fatto un gran dispetto / ha chiamato il Novecento che fa ancor pipì nel letto».
Cecco Beppe e la povera Sissi
Il condottiero non fu l’unico a essere al centro dei più diffusi sberleffi canori del Regio esercito italiano: vi fu anche Francesco Giuseppe imperatore d’Austria - «Cecco Beppe faceva l’aviatore / in mancanza di benzina pissava nel motore / e dai e dai e dai che l’Italia vincerà». Assieme all’incolpevole consorte assassinata una ventina di anni prima, la principessa Sissi: «La moglie di Cecco Beppe l’andava ’ns l’altalena / l’andava tanto forte ch’la mustrava la filumena», oppure «La moglie di Cecco Beppe voleva andare a Roma / ma nel viaggio ha perso la corona».
Da dove nasceva il desiderio di esprimersi tramite il canto popolare tra casematte e trincee? In vista della ricorrenza dei 100 anni dal 4 novembre 1918, quando alle ore 15 le operazioni di guerra cessarono, entrò in vigore l’armistizio di Villa Giusti e fu proclamata la fine della Grande guerra, esce la bella e dotta ricerca di Franco Castelli, Emilio Jona e Alberto Lovatto Al rombo del cannone. Grande guerra e canto popolare (Neri Pozza, pp. 832, € 30). Gli studiosi ci spiegano che il terribile scontro in cui furono coinvolti 4.250.000 soldati italiani (i morti furono 600 mila, i feriti un milione e 500 mila e i prigionieri circa 600 mila) fu veramente un grande fenomeno musicale, più del Risorgimento e della Seconda guerra mondiale.
Vi fu un impulso incontenibile per squadroni e drappelli a marciar cantando: era l’unico modo che i militi conoscevano per buttar fuori sarcasmo, ironia, odio, frustrazione, sdegno, paura. A comporre questi pirotecnici giochi musicali spesso erano operai o contadini illetterati (solo il 24 per cento dei soldati parlava l’italiano e nel 1911 l’analfabetismo riguardava il 40 per cento degli abitanti della Penisola) che sapevano manifestare i sentimenti tramite la loro verve canterina: a trascrivere i motivetti germinati nel fango e nella guazza provvedevano gli ufficiali più acculturati.
Le condanne per disfattismo
Questa gran massa di materiali fu sottoposta a censura ed espulsa da raccolte e canzonieri. I canti oggi recuperati erano veramente ribelli: assommavano proteste anticlericali, «I preti dicono a noi di fare penitenza / di dare la donna a loro e noi di stare senza»; storielle licenziose sul graduato che «se ciava la madre e la figlia / e la serva sul sofà»; composizioni oscene con il fantaccino che rivendicava modulando il suo diritto di sparger feci e altre delizie varie nelle camerate. C’erano i cori pacifisti: «Prendi il fucile e gettalo a terra / vogliamo la pace e non la guerra»; le certezze del massacro: «I nostri comandanti / gridano avanti avanti / non per niente si sparge il sangue / ci mandano al macello per carità»; le proteste per i privilegi dei ricchi: «E l’avvocato fa il tornitore / lui s’è imboscato con grande onore quando le palle sentiva fischiar».
Tutti argomenti tabù che comportavano pesanti condanne per disfattismo e insubordinazione. Così, per esempio, a un povero stagnino che si giustificava per aver cantato in stato di ebbrezza, furono affibbiati quindici anni di galera, ma venivano condannati anche i militari che registravano i motivi incriminati nelle lettere a casa (furono 4 miliardi le missive e le cartoline postali scambiate in guerra).
Le canzoni popolari furono veramente distanti dalla retorica patriottico-nazionalista del Ventennio nero e furono lontane anche dall’immagine del soldato paziente e rassegnato condivisa da scrittori antifascisti come Adolfo Omodeo e Piero Jahier. Quest’ultimo individuava negli alpini, e in generale nei militi, «le virtù tradizionali degli umili, la forza, la pazienza, la tenacia, l’etica del lavoro». La truppa angosciata e sofferente non si ritrovava però nel ritratto degli intellettuali ma nella rabbia musicale pop dei commilitoni che maledicevano il Grande Macello bellico: «Maledetti signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta/ uccisori di carne venduta / e rovina della gioventù».