Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  ottobre 07 Domenica calendario

Intervista a Sveva Casati Modignani

Una signora da 12 milioni di copie. Contabilmente è questa la migliore rappresentazione di Sveva Casati Modignani. Ho pensato che valesse la pena conoscerla e incontrarla. Ho letto il suo nuovo romanzo Suite 405 (appena uscito da Sperling & Kupfer) e ho gettato un occhio sui libri precedenti. Le 489 pagine nelle quali mi sono avventurato mi hanno a volte irritato, ma più spesso catturato per il modo semplice di porgere la storia: capitoli brevi, personaggi senza un filo di ambiguità, passabilmente fortunati, più o meno immersi nella quotidianità che tutti noi frequentiamo, e che Sveva vede come un’occasione di riscatto. Se sei povero puoi aspirare a migliorare; se hai migliorato nella scala sociale puoi perfino permetterti di entrare in mondi che le tue origini non ti consentivano: basta essere belle, intelligenti, oneste, nel caso delle donne. O intraprendenti, forti e giusti, nel caso degli uomini. Si tratta di una visione ottimistica della vita. Il che mi fa pensare che Sveva Casati Modignani sia oggi l’esempio di maggior successo di un certo populismo letterario che in Italia ha avuto come capostipite Edmondo De Amicis.
Si riconosce in questa definizione?
«Posto che non mi sento per niente populista, almeno politicamente. Aggiungo che dal punto di vista della letteratura non considero un’offesa essere iscritta in quel filone. Mi pare che tanti anni fa un autorevole critico abbia scritto un libro dedicato a scrittori e popolo. Insomma sono in buona compagnia».
Il critico cui allude è Alberto Asor Rosa. E non era stato tenero con quella tradizione letteraria.
«È vero. Ma volevo dire che il popolo è un’entità fondamentale, ma anche indistinta. Si compone di tante cose. Non me la sentirei di parlarne in astratto. Ho scritto 35 romanzi e in ognuno c’è un pezzo, più o meno significativo, di storia del nostro paese. Il primo era su di una Italia che non esiste più. E 34 romanzi dopo mi viene da dire che il nostro paese è cambiato ma non in meglio».
Il suo primo romanzo da quale spinta è nato?
«Da bambina mi piaceva scrivere. Ma non fu così rilevante per il prosieguo. Tranne che per un dettaglio. Per il giornalino della parrocchia provai a scrivere il mio primo racconto. Immaginai la storia di due bambini. Uno ricco e l’altro povero. Si concludeva piuttosto male per il povero. Don Giuseppe, il parroco, mi disse: devi cambiare il finale. Lo devi addolcire. È questo che i lettori si aspettano».
Seguì il consiglio?
«Mi rifiutai e lui non lo pubblicò. Ero fiera di aver tenuto il punto. Ma ad anni di distanza compresi che aveva ragione. In quegli anni leggevo tantissima narrativa. Adoravo Cechov. Mi piaceva Proust. E mi dicevo: questa è scrittura. Io faccio solo schifezze. Per un periodo mi dimenticai dei miei componimenti. Restai, in qualche modo, legata alla macchina da scrivere perché nel frattempo ero stata presa alla Notte».
Ed era soddisfatta?
«Mi sembrava, in ogni caso, un bel passo avanti. Avevo lavorato come segretaria in una società, annoiandomi mortalmente. Il giornalismo mi parve un modo di ricominciare a stare dentro la vita e di poterla perfino raccontare. Feci anche qualche scoop. Come quando mi infilai nella suite di un hotel milanese dove c’erano i Beatles. Ero travestita da cameriera. Loro sbracati sul divano e la moquette. Avvertii un odore pungente di erba. Una specie di nebbia che si mischiava al disordine assoluto. Capirono quasi subito che non ero quella che sembrava. Fui cacciata. Ma riuscii egualmente a raccontare quanto avevo visto. Sono andata avanti con il giornalismo per un po’, fino a quando mi sono sposata e ho avuto un figlio».
Le è cambiata la vita?

«Da un lato è migliorata, dall’altro mi sembrava di essere sospesa tra il dovere di occuparmi della famiglia e il desiderio di tornare a scrivere per me. Passarono un paio d’anni prima di prendere una decisione. Pensai a una sorta di diario. Ma quando mio marito lesse quel brogliaccio mi disse che c’erano tutte le premesse per un romanzo. Fu il primo».
Veniamo all’ultimo: Suite 405.
«Lo ha letto? Che effetto le ha fatto?»
Mi ha irritato e sorpreso.
«Sorpreso perché?»
Perché sono arrivato fino in fondo. C’è una bella fluidità che non mi aspettavo.
«Ma anche irritato».
In certi momenti mi sembrava di stare davanti a una vetrina allestita con gusto, ma senza scorgerne la profondità.
«Le dava fastidio questa, come la chiama, assenza di profondità?».
Mi ha distolto dal pensiero vero che avevo cominciato a formulare: se vuoi vendere milioni di copie, se vuoi pescare nel popolo dei lettori, lo puoi fare solo a patto che non spaventi chi ti legge. Devi stare sulla superficie della loro anima.
«Le confesso che amo molto i lettori che mi amano. Ma non sopporterei mai la loro l’infatuazione. Qualche anno fa ero a Brescia per presentare un mio libro. A un certo punto entrò una suora con due grandi sporte dell’Esselunga. Si sedette e attese pazientemente la fine della presentazione. Poi si avvicinò al tavolo. Mi disse che lavorava come capo infermiera nel reparto di oncologia dell’ospedale. Aprì le due borse e tirò fuori una trentina di copie del romanzo».
Immagino per un firma copie.
«Per delle pazienti di oncologia che erano state operate. E che avevano trovato una piccolissima ragione in più di speranza in quel romanzo che parlava di cancro. Trovai emozionante e bellissima quella prova di affetto».
Cos’è il successo per una come lei?
«Se pensa ai milioni di copie che ho venduto coglierebbe solo il lato più ovvio. Il successo? È avere intorno persone per le quali nutri affetto e che ti ricambiano. Il successo è anche una torta di mele ben riuscita».
Scrisse i suoi primi libri in coppia con suo marito, è così?
«Firmavamo con lo pseudonimo di Sveva Casati Modignani. In realtà mi chiamo Bice Cairati. Io scrivevo e lui correggeva. Il sodalizio si è interrotto prima della sua scomparsa, all’inizio della lunga malattia».
Lunga quanto?
«Vent’anni. Si ammalò di Parkinson. Alla fine era come imprigionato nel suo corpo. È stato molto difficile. Mi dicevano: non lo puoi tenere in casa. Ma per lui era il solo ambiente accettabile».
La esasperava questa situazione?
«Non esasperata: disperata. La scrittura era la sola via di uscita dalla tristezza. Il giorno dopo che è mancato ho detto a mio figlio: usciamo e cerchiamo un bel ristorante. Abbiamo bevuto un’intera bottiglia di champagne. È stato un modo di sorridere tra le lacrime».
Un modo di dire che la vita va avanti.
«La vita ha energie che neppure sospettiamo».
Ha avuto nuovi legami sentimentali?
«Per carità. Ho già dato. Sono felicemente vedova».
Ha mai pensato di scrivere una storia partendo dall’esperienza della malattia, in particolare da quella di suo marito?
«No, non avrei potuto e soprattutto voluto. Quando scrivo ho bisogno di respirare sapendo di affrontare situazioni che in qualche modo riuscirò a risolvere».
Ma nella vita non è sempre così.
«Lo so, ma nella mia realtà immaginaria devo trovare una soluzione alle cose che scrivo».
La sua è una vita ordinata?
«Sono una vera casinista. Forse per questo le mie storie devono essere limpide».
Come arriva a scriverle?
«Il tema in qualche modo si impone da sé. A seguire c’è la fase della ricerca. Infine la scrittura che è la cosa più semplice».
Ed è tutto chiaro in lei?
«Per niente. All’inizio la storia si compone di ombre. Io so che devo corteggiarle perché alla fine saranno loro che mi raccontano ciò che scriverò».
Non c’è un momento razionale?
«C’è nella fase dello sviluppo, quando il tema è stato scelto. In Suite 405 il tema di fondo è il lavoro. Il conflitto tra chi lo svolge e chi lo comanda. E mi è sembrato doveroso documentarmi prima di scrivere scemenze».
Cosa ha fatto?
«Ho chiamato la segreteria della Fiom e ho detto che volevo incontrare Maurizio Landini. Alla fine riesco a parlargli. Gli dico che ho in mente un libro in cui uno dei due protagonisti è un sindacalista. Lui si scusa, mi dice che ha poco tempo. Che non ha mai letto un mio libro. Ma che la moglie li ha invece letti quasi tutti. Poi aggiunge che di lì a qualche settimana, visto che è luglio, avrebbe affittato, come tutti gli anni, una casetta a Gabicce. Se vuole, conclude, può venire a stare da noi. C’è una stanza libera».
E lei va?
«Mi pareva eccessivo, comunque ho prenotato un albergo non distante dalla loro abitazione e abbiamo trascorso parte del tempo a discutere di cosa sia oggi il lavoro. Capisco che è cambiato il mondo della produzione e della distribuzione, che gli operai sono sempre di meno e che oggi per definire un lavoro si aggiunge un numero, un punto e lo zero. Come se ogni volta si ricominciasse da capo».
Non è così?
«Certo, ma come si fa a lavorare per tre mesi e poi a casa ad attendere la prossima chiamata? Come si fa ad appassionarsi a un lavoro per cinque euro l’ora? Non era così trenta quarant’anni fa. Io ricordo la dignità della gente che lavorava, la possibilità di crescere, di migliorare di fare da traino per i propri figli».
Lei dove è nata?
«A Milano da una famiglia agiata travolta da diverse traversie economiche».
Suo padre cosa faceva?
«Era un commerciante di vini. Poi mia madre, cui evidentemente non bastava lo status sociale raggiunto, lo convinse a intraprendere una attività industriale più ambiziosa. Fu un disastro. In poco tempo diventammo poveri».
Suo padre come reagì?
«Non se la prese più di tanto. Era un mite e un sognatore. Sapeva godere delle piccole felicità, anche nei momenti più neri».
Sua madre?
«Una donna ambiziosa, ma soprattutto ottusa e codina».
Lo dice come se conservasse un odio, o meglio un bisogno di rivalsa.
«Non ha fatto del bene, ma non l’ho odiata. Però non l’ho mai capita. È rimasta un mistero per me e credo anche per mio fratello. Faceva di tutto perché litigassimo. Le pare normale?».
L’ha definita codina.
«Come chiamerebbe una che pretendeva che mio fratello si facesse prete? Oltretutto, nel suo delirio religioso voleva che mi facessi suora. Subiva l’influenza di una cugina, badessa in un convento sul lago di Garda».
Sembra l’incipit di un romanzo ottocentesco.
«Ma senza lieto fine! Ricordo una vecchia zia che cercava di convincerla di impedirmi di leggere i libri. Chissà quali strane idee le possono venire, insinuava. Non può sapere i pianti che mi sono fatta. Finché è vissuta ha sempre pensato che fossi una peccatrice incallita».
La religione è diventata solo un ricordo?
«Ne sono lontanissima. Da giovinetta andavo in chiesa. Avevo il messale in una mano, ma sotto il cappottino un romanzo di Salgari».
Oggi cosa legge? Glielo chiedo perché ho notato che in Suite 405 cita vari scrittori.
«Mi diverte Alessandro Robecchi, adoro Alan Bennett. Di solito cito gli autori che amo».
Le piace Elena Ferrante?
«Non l’ho mai letta. Mi spaventa dover dare un giudizio sotto il fuoco mediatico del riconoscimento. Diciamo è in lista di attesa».
E Susanna Tamaro?
«Ho letto il suo bestseller più celebre. Non ne ho mai compreso il successo».
Avverto una punta di gelosia professionale.
«Ma proprio per niente. La verità è che la sola cosa che mi comunica è una certa supponenza intellettuale».
Non esagera?
«Forse. Ma la letteratura per me è una fede laica. Non scommette sull’assoluto, a meno di non riferirsi a quei dieci capolavori che hanno fatto la storia della letteratura occidentale».
A proposito di fede suppongo che non creda in Dio.
«Si sbaglia. Credo in un Dio soprattutto madre. Fu un papa, il cui pontificato fu breve quanto il battito di ciglia, a esprimere questa grande verità. Non importa che si chiami Jahvè o Allah. Conta la sua avvolgente forza materna. Tutto quello che non ho avuto da mia madre lo ritrovo meravigliosamente in questo pensiero».