Artecinema ha intuito in anticipo sui tempi il legame profondo tra arte contemporanea e cinema, che è oggi una vera tendenza.
«Penso che si sia capito che i media non sono più recettori a compartimenti, che c’è fusione. L’arte contemporanea, poi, si traduce sempre più spesso in videoarte. Sono stati bravissimi gli organizzatori della rassegna a intuire questo legame e a farne un festival. Un evento in cui è possibile vedere l’arte attraverso il cinema, con uno sguardo diverso rispetto ai documentari tradizionali. Si tratta di un’ottima occasione sia per chi partecipa in qualità di artista, sia per chi ne fruisce da spettatore. Per me è un momento importante e bello anche quando non presento cose mie. Perché è un’occasione unica per vedere una selezione attenta di film particolari che altrimenti non potresti vedere neanche sui canali tematici. E ci sono cose talmente belle da attrarre anche il pubblico dei non addetti ai lavori».
Il legame col cinema aiuta l’arte contemporanea.
«Sì, nel senso che l’ha resa più popolare. Frequentando da tanti anni il mondo dell’arte, mi ero fatto l’idea che in qualche modo si trattasse di un settore elitario. E invece c’è un grande pubblico di non addetti. Mi pare che negli ultimi anni l’arte contemporanea si stia aprendo a una platea più vasta. E il cinema, che è geneticamente uno strumento più popolare, è il mezzo diretto per allargare il numero dei fruitori. In questi tempi in cui tutto è, nel bene o nel male, più facilmente fruibile, mezzi come il cinema e la televisione e le piattaforme aiutano una più veloce diffusione, mostrando l’arte ma anche raccontando le storie, le vite, gli sguardi degli artisti».
È quello che ha fatto con il docufilm su Schnabel.
«Sì. Ci conosciamo da tanti anni, con Julian, e quello che volevo fare, vivendo un anno a casa sua, era raccontarlo attraverso il mio sguardo, trasmettere quello che voglio vedere e vedo in lui. Oltre all’artista mi interessa anche il grandissimo regista e un uomo dalla straordinaria energia. La sua capacità di concentrarsi sul lavoro e di renderlo parte integrante della vita. Julian si rapporta alla vita attraverso la sua arte, vive nella sua visione del mondo. Era questo che volevo mostrare».
Perché un artista sente il bisogno di raccontare un altro artista? Lei ha raccontato Schnabel e altri; Schnabel ha raccontato Basquiat e ora Van Gogh.
«Chi fa cinema ha l’esigenza di raccontare sé stesso, succede a tutti i registi che siano anche autori. Le storie degli altri sono un modo per raccontare le proprie visioni e ossessioni. Raccontando Julian ho anche narrato elementi che mi appartengono. Ho usato la sua vita, la sua biografia, per dire qualcosa sulla mia. Lui ha fatto lo stesso con Basquiat: non si tratta di un paragone. È che ogni artista sente affinità, ispirazioni, stimoli verso qualcun altro».
Ha visto At Eternity’s Gate?
«Sì, un bellissimo film. E svelo un particolare, senza pudore. Anche se Julian aveva già lavorato con Dafoe, sono stato io a ricordargli che Willem sarebbe stato un ottimo Van Gogh. Lui non ci aveva pensato, ma poi gli ho mostrato delle foto in cui Willem sembrava proprio Van Gogh. E quindi in un certo senso mi sento anche parte ispirante di questo progetto».
Secondo lei, cosa ha voluto raccontare di sé Julian attraverso Van Gogh?
«La difficoltà, per un artista, di farsi capire e accogliere. Anche Julian, malgrado il successo e situazioni apparentemente diverse, si sente incompreso. Non in senso vittimistico, ma come il sentirsi di non essere nell’epoca giusta. Di vivere uno sfasamento temporale. Si evince anche dal mio documentario, quel suo sentirsi a disagio rispetto alla libertà di potersi esprimersi come si vuole. Detto questo, il mio film racconta la mia visione di Julian, come At Eternity’s Gate racconta quella di Julian su Van Gogh. Il mio non è un ritratto oggettivo, agiografico o critico, come il suo non è certo un biopic».