A un lettore italiano, signora Haigh, viene da pensare a una specie di manifesto alla Zuccotti Park.
«Questo è fondamentalmente un romanzo sull’America di Trump, un ritratto a tutto tondo della gente che lo ha votato. Non lo dico per scusare i miei personaggi — per me l’elezione di quell’uomo è una catastrofe per l’America e una brutta notizia per il mondo intero — ma per gettare un po’ di luce su quanti credono in lui. Il romanzo parla della frustrazione della classe operaia che ha perso i mezzi di sostentamento, che vive in comunità disintegrate, e tratta della percezione distorta che ha questa gente sulle cause dei propri problemi e di come, cercando la salvezza, si affidi a false credenze. Quindi, il lettore italiano non sbaglia, ma in America il romanzo non è stato letto in questo modo. Può darsi che i valori dell’industrialismo siano così incistati nel nostro modo di essere e di sentire da renderci incapaci di cogliere l’ingiustizia e di prendere in considerazione l’azione radicale».
Epica dei “perdenti” suona allora più americano?
«Sì, certo. Io sono cresciuta in una città come Bakerton, le cui sorti dipendevano dall’energia. Sono posti che hanno una relazione unica e tragica con la Madre Terra. L’unica speranza di prosperità è svendere le proprie risorse. Ma è come vendere la propria carne un pezzo alla volta!».
Nel suo romanzo ci sono pagine impressionanti in cui lei racconta i cinici boss delle “corporate”.
«Non sta scritto nei Libri sacri che siamo condannati a essere dominati da loro, e non dovrebbe andare così. Purtroppo, di solito è così che funziona».
Perché, nonostante tutto, continuano a esistere i ricchi e i poveri, e le classi sociali...
«Ma certo! Sono nata in una famiglia di estrazione operaia, le classi esistono ancora, e per me le classi sono una fonte continua di ispirazione. Anche se in America non è un argomento del quale si parli volentieri».
Nello stesso tempo, lei tratteggia con grande affetto, e a volte con autentica pietas, certe figure di perdenti. I Devlin, per esempio. È difficile per un lettore non empatizzare con loro.
«Ah, i Devlin! Mi spezzano il cuore, i Devlin. Una generazione fa questa famiglia viveva grazie alle miniere di carbone. Ora lavorano tutti nell’industria della dipendenza».
“Dipendenza”, intesa nel senso di droghe, alcool?
«Sì. Quando perde il lavoro in miniera, Dick apre una taverna. Dei suoi due figli, uno è un ex- tossico che lavora come terapista in una clinica che distribuisce metadone ai disintossicati come lui. L’altro figlio, il maggiore, fa il secondino nella prigione piena di spacciatori. Sono tutti nel "business" della dipendenza. L’unica industria in espansione, a Bakerton».
Esiste da qualche parte, signora Haigh, una qualche tenue luce di speranza, per gente come i Devlin?
«Per gente come loro la speranza è qualcosa di inafferrabile. E sanno benissimo che le loro vite non potranno cambiare in meglio. Ciò in cui sperano è in un futuro migliore per i figli. Ma, sa, c’è un’amara ironia in tutto questo: l’unico modo che hanno i figli per avere successo è di partire, di separarsi dai padri e dalle madri. Di spezzare la famiglia».
L’ultima frase del libro mi ha molto colpito: “Siamo tutti naviganti”.
«Chi più chi meno siamo tutti presi nell’ingranaggio dell’economia globale. Nella scena finale Rick Devlin, che da giovane era stato nei Marines, ripensa alla guerra del Golfo e capisce che non lo hanno mandato a combattere per la patria, ma per gli interessi delle “corporate”. La ricchezza delle imprese è grande quanto l’oceano, e che lo si capisca o no, questa è l’onda che trascina tutti noi».