Robinson, 7 ottobre 2018
Cosa fanno i quadri quando dormono
Il deposito di un museo è insieme una morgue, una cantina e una stanza delle meraviglie. Custodisce cadaveri: ovvero quadri morti, che hanno cessato di vivere coi loro autori e il loro tempo. Superfici inerti, che non conosceranno resurrezione. Nessuno verrà a reclamarli. Ma ammucchia anche i resti della vita precedente dei proprietari della dimora soprastante: in cantina mobili vecchi, oggetti passati di moda, che hanno cessato di funzionare, o non servono; qui opere che non piacciono più, o non abbastanza, che sono state belle né cessano d’esserlo, ma non corrispondono al gusto del presente. Infine, come la Wunderkammer di un collezionista, un deposito preserva rarità, stranezze, cose insolite, che non trovano posto altrove ma sono capaci di sbalordire. E i depositi della Galleria Nazionale di Roma sono tutto ciò, e molto altro.
Due di essi, riordinati e riorganizzati nel 2011 e nel 2014 a cura del team di architetti, tecnici, storici dell’arte e restauratori della Galleria, per volontà della dinamica direttrice Cristiana Collu verranno valorizzati e aperti al pubblico per visite guidate. Poche rampe separano i luminosi e animati saloni del piano superiore dal quieto sotterraneo, nel quale pure si svolge un’attività incessante di restauro, silenziosa come in un acquario. La gerarchia stessa dello spazio evoca il declassamento. Far scendere un quadro è più naturale che farlo risalire (anche se non sono rare le rivalutazioni e le riscoperte che riportano alla luce opere o autori dimenticati). Ma i depositi della Galleria Nazionale non sono gli inferi dell’arte moderna e contemporanea (benché, come vedremo, ospitino anche dannati). Un corridoio limbale, nel quale si susseguono cornici senza quadro (espongono il loro vuoto, o altre cornici), conduce a una porta sempre chiusa a chiave.
I depositi sono attrezzati per custodire dipinti, realizzati su qualunque supporto (tela, tavola, carta) e di formati diversi (dai grandissimi ai minuscoli), spesso ancora con la cornice originaria. Il clima non cambia mai: la temperatura sui 20° per un’umidità del 50-60 per cento, ideale per il corpo umano, lo è anche per le pitture. Il deposito n. 1 – 88 pannelli in ferro fermati da asticelle mobili, con apertura manuale, a libro – custodisce circa 1100 dipinti di artisti nati entro il 1870. Ogni pannello reca una lettera: l’ordine alfabetico per cognome d’autore è il più adatto per garantire l’immediata reperibilità di un’opera (ma alla lettera I c’è anche una sezione dedicata all’Ignoto, con quadri giunti anonimi dopo sequestri giudiziari). Sulla parete antistante si affollano gli extra size che nessun pannello potrebbe contenere. Tra questi, la Resurrezione di Giulio Bargellini: trittico enigmatico nel quale un Cristo ascetico vagamente simile a Jesus Christ Superstar separa due scene di riti pagani.
La collezione si presta a letture trasversali. La più ovvia è la ricerca dei pittori più noti. Ci sono tutti. Fattori, Morelli (con una nutrita serie di paesaggi in formato cartolina), Pelizza, Previati – fino a Sartorio (i cui bozzetti per la Gorgone e gli eroi periodicamente salgono al piano superiore). Spicca l’Attesa degli sposi di Favretto. Nella Venezia povera, scenario delle opere migliori dell’artista, una folla di curiosi si accalca in un sottoportico, mentre una gondola attende nel rio. Il soggetto del quadro è l’assenza e i mattoncini sbreccati del muro in primo piano e l’intonaco roso dalla salsedine non sarebbero dispiaciuti a Proust. Oppure il contrario: lo spoglio degli sconosciuti. Come l’orientalista Biseo, coi suoi ritratti di mori e neri del Cairo, o la suggestiva Carovana nel deserto, arsa dalla luce. Più scolastica una lettura per generi – pittura di storia, natura morta, paesaggio, ritratto – esaustivi della produzione italiana ottocentesca. Impertinente quella per titoli. La gelosia del giaurro, Perla infranta, Il viatico dell’orfana, Nerone che piange Roma… Restituiscono la cultura stantia che asfissiava i pittori del nostro Ottocento: dal romanticismo al feuilleton, fino all’apoteosi della cartapesta storica che si travaserà nel cinema in costume: il kolossal e il peplum furono invenzione del muto italiano. Obbligata la lettura di genere. Come in tutti i musei, rarissime sono le pittrici. Rintraccio una Campagna romana e un Paesaggio con Aniene di Marianna Dionigi, e i sognanti aristocratici in abiti settecenteschi al parco, della veneziana Emma Ciardi (Rondini e farfalle). C’è anche Lettrice dell’impressionista bernese Marta Stettler: una bambina legge, nella stanza dei giochi, osservata dalla sorellina che per un istante si distrae dai giocattoli. Un inno tenero alla seduzione esercitata dalla lettura. Si legge come un romanzo infatti l’acquerello Son sola di Giuseppe Ferrari (1895). La giovane donna in camicia bianca, pallida, esangue, è l’immagine della desolazione. Sistemando il deposito, Barbara Tomassi ha rinvenuto sul retro un cartiglio di Ferrari, che annotava il nome della modella, Diana, e la sua storia. Spinta dalla miseria, stava per gettarsi col padre nel Tevere. Salvata da un pittore, ne aveva poi sposato un altro.
Ma forse la sezione più intrigante è quella delle opere nascoste perché travolte dalla storia. Dipinte in epoca fascista per il regime, o dal regime celebrate, sono state poi seppellite nei depositi come in una tomba. Eppure, la scomoda sezione di ‘arte politica’ vanta alcune gemme. Come La rivoluzione fascistadi Plinio Nomellini, già gentile divisionista e simbolista (si veda infatti La sorellina minore del 1911), nel quale un avanguardista apollineo avanza fra balilla adolescenti. Stona il motto coi versi virgiliani TU REGERE IMPERIO POPULOS ROMANES MEMENTO, che suona sinistro: il quadro fu esposto alla Mostra della Rivoluzione Fascista del 1936 – salutato come l’anno della rinascita dell’Impero, fu invece l’inizio della fine. Tuttavia la pittura a filamenti e grumi di colore è sontuosa. Più sorprendente ancora La gioventù italiana del Littorio di Dilvo Lotti, in corso di restauro. Vincitore nel 1941 del Premio Cremona ideato dal famigerato Farinacci, è una natività laica, acida ed espressionista.
Il quadro più inquietante della galleria “politica” è però il raffinato Duce di Antonio Mancini. Benito balza dal bianco della tela: postura napoleonica, divisa di gala e feluca, porta al viso le mani inguantate. È un Mussolini vincente, ma soprattutto irresistibilmente felice. Il ritratto dimostra che la qualità pittorica è indipendente dal soggetto, e che la politica non può uccidere l’arte, anche se la avvelena. Per questo, è un quadro maledetto. Il contrasto col deposito n. 6, del Novecento, è brutale. In un’esplosione di colori e di libertà (di formato, tecnica, supporto e soggetto: le immagini sono tutte astratte) si susseguono Afro, Capogrossi, Fontana, Twombly, Vedova, Pascali ( col tridimensionale Torso di negra, dalla tela curvata e deformata), e le artiste Bice Lazzari e Maria Lai ( Il sole scucito).
Qui i quadri sono discesi per esigenze di spazio e scelte di allestimento (l’esposizione rarefatta di Collu obbliga alla selezione). Il deposito diventa camera iperbarica: non contiene dipinti che non piacciono più, ma in transito. Funzionale alla frenesia dei prestiti e alla mobilità delle opere, ma soprattutto alla concezione odierna del museo come organismo vivente in continuo mutamento. Discese e risalite sono solo tappe di un passaggio: il deposito dell’arte contemporanea è liquido come il nostro tempo. Anche le opere sono liquide. Realizzate con materiali disparati ( lana di vetro, pillole, sacchi, materie organiche), di cui gli artisti ignoravano la reazione nel tempo, deperiscono facilmente. Restaurarle e conservarle si è rivelato arduo. Memento della precarietà di ogni gloria che un deposito annuncia a chiunque s’avventuri a creare…