Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2018
A tu per tu con Massimo Valsecchi
In un caldo pomeriggio a Palermo Massimo Valsecchi spalanca le vetrate di una stanza al primo piano di Palazzo Butera. A sinistra si apre uno degli splendidi saloni di uno dei più bei palazzi nobiliari di Sicilia, a destra il balcone dà sulla stretta via della Kalsa, antico quartiere un tempo abbandonato ora rinato.
Ex broker, ex docente di storia del design industriale, collezionista assieme alla moglie Francesca, Valsecchi sta raccontando il suo ambizioso progetto che nasce prima della fine 2015, momento in cui acquista Palazzo Butera e si trasferisce in città. La sua voce è all’improvviso coperta dalla musica a tutto volume di una macchina che si infila nella stradina; da siciliana quasi si vorrebbe chiedere scusa per l’irrispettosa esplosione che invade l’antica dimora, il ligure Valsecchi non cambia tono né si scompone, solo si interrompe e osserva «questa è una presa di posizione, è una umanità che non sa come esprimersi».
Valsecchi non è il ricco cosmopolita estraneo a una regione in un cui non aveva messo piede fino a quattro anni fa. Non è neanche solo l’investitore che dà vita a un importante museo (al pianoterra mostre temporanee, al primo piano conferenze e attività didattiche, al secondo la ricca collezione Valsecchi che riceverà i prestiti di due musei universitari, l’Ashmolean di Oxford e il Fitzwilliam di Cambridge, beneficiari delle sue donazioni temporanee).
Porta avanti un progetto rivoluzionario, almeno agli occhi di chi ha sempre visto i palazzi siciliani splendidi, decadenti e irrimediabilmente chiusi. Ha costruito una piccola rampa di scale che ora collega la Passeggiata delle Cattive che dà sul vecchio porto («non sempre aperta», si duole lui) alla caffetteria Tasca d’Almerita aperta da poco. La Passeggiata, le scale, il bar, si entra così nel cortile del Palazzo, «lo si attraversa» dice Valsecchi: «non è necessario che le persone visitino il museo, è importante che possano entrare nel centro storico attraverso Palazzo Butera, che non deve più essere una fortezza».
Una delle cose che chiesero e ottennero al Senato palermitano i Branciforte poi principi di Butera quando ampliarono il seicentesco Palazzo, fu proprio la possibilità di occupare lo spazio cittadino tra la Kalsa e le mura della città; ambizione di Valsecchi è ridare ai palermitani il mare, e non è l’unica. «Sono stato una persona privata per tutta la mia vita – racconta – se parlo adesso è solo per il progetto. Che mira a realizzare ciò che la politica e l’economia non riescono più a fare, dare un punto, un’idea di futuro. Quindi ho pensato alla bellissima Sicilia e alla straordinaria Palermo che sono in una posizione di non futuro, strangolate da cent’anni di inerzia, malaffare, mafia, malagestione. Vorrei che la Sicilia uscisse da queste sabbie mobili e recuperasse quell’identità internazionale che aveva fino all’Ottocento».
Nell’atrio incontriamo gli operai che lavorano a “Cantiere aperto” – così il nome provvisorio del dépliant per i visitatori – Valsecchi li saluta per nome, ciao Pino, ciao Giuseppe, «arrivo alle 6 del mattino e vado via con loro, sono prigioniero qui da tre anni» dice con il mezzo sorriso di chi sta plasmando la sua prigione. Ha capito molte cose dei siciliani, una fondamentale, il bisogno di essere rassicurati: «Quando fanno bene un lavoro glielo dico, loro sono contenti». Non si sbilancia mai troppo sui nuovi concittadini o sul soggiorno in città, quasi si trovasse qui solo per completare una missione, poi ti sorprende con osservazioni di chi a Palermo ci vive e bene, anche in un giorno di caldo insopportabile: «In questa città si panifica sei volte al giorno anche la domenica, questo è un grande segno di civiltà». Sono solo momenti però perché preferisce riflettere sulla Sicilia: «È un continuo e anche inconsapevole produttore di storia e cultura» come lo è Palazzo Butera che ha ospitato i viaggiatori del Grand Tour, re d’Europa, Nelson e Guglielmo II ed è ora oggetto di un complesso restauro coordinato da lui e dalla moglie Francesca.
Palazzo Butera sarà uno spazio per l’arte che è, dice Valsecchi, «l’unico acceleratore, un conduttore, l’unica cosa che potenzialmente possono fare e capire tutti». Il collezionista cambia sapientemente tono di voce quando sottolinea «potenzialmente», voce che scorre di nuovo libera quando definisce l’artista secondo il modello leonardesco, spirito incuriosito da tutto che esplora più discipline – educato disinteresse per «la manipolazione» che oggi il mercato premia.
«Vorrei che Palazzo Butera diventasse un punto di contatto tra Palermo e l’estero, una cosa che adesso non c’è». Insiste sullo spazio aperto, sul coinvolgimento della città e dell’università (l’Ashmolean e il Fitzwilliam a cui ha prestato le sue opere sono, non a caso, musei universitari). Ha anche fondato Palermo Mediterranean Gateway, associazione che riunisce Palazzo Butera, Università, Chiesa e Fits, fondazione per il terzo settore di Banca Prossima (gruppo Intesa Sanpaolo), obiettivo è generare innovazione sociale attraverso l’arte, la storia, la cultura.
Ripete che vorrebbe dare una possibilità di ritorno ai siciliani costretti a studiare e avere successo altrove; pensa di fare di Palazzo Butera e dell’adiacente palazzo Pirajno un centro studi legato alle università straniere. Centrale è proprio il suo modo di intendere l’ateneo, un luogo che dialoga con le scuole, punto di riferimento per lo scienziato e lo scalpellino, «un modello alternativo alla specializzazione esasperata – dice – stortura tipica della cultura universitaria americana». Definisce l’università «motore di ricerca», e lo fa senza alcun riferimento a Google.
E non v’è nulla di astratto nel motore di ricerca Valsecchi-Butera che tiene insieme le trattative per il prestito di un Antonello da Messina dal Philadelphia Museum of Art e l’idea di creare una scuola per tappezzieri.
Valsecchi si muove in un mondo parallelo, compra Palazzo Butera a fine 2015, anno in cui l’Europa affronta la prima grave crisi migratoria, vuole completare i lavori nel 2019, il progetto prende forma in questi mesi «in un periodo – dice – in cui siamo schiacciati dal consenso del presente, in cui giriamo attorno al falso problema dell’immigrazione. In cui ci si chiede come e cosa fare dell’accoglienza, ho scelto la Sicilia anche per questo. L’immigrazione è un problema che non si risolve, voi siciliani lo gestite da secoli, avete l’accoglienza nel vostro Dna, siete una sovrapposizione, una sovrapproduzione di culture, dai fenici alle decine di lingue che oggi si sentono parlare a Ballarò. La chiesa di qui, quella di padre Cosimo Scordato è più accoglienza e apertura che liturgia, chi arriva non si deve fare il segno della croce, non vi sono conflitti, bengalesi e africani partecipano al festino di Santa Rosalia come fosse il loro. Palermo è sempre stata una città viva, un posto unico in cui scorre una vita reale. Ed è una città di questa Europa in crisi che però è l’unico continente che è stato ed è un’incredibile e irripetibile area di movimento, niente di paragonabile alle monoculture asiatiche ad esempio».
Massimo Valsecchi è di Genova ma per anni ha vissuto a Londra, è un ex uomo d’affari ma è anche uno studioso, conosce profondamente Milano e ora anche Palermo. Racconta dei progetti milanesi interrotti come il recupero di Palazzo Dugnani, ricorda di quando si pensò di spostare l’accademia di Brera all’ex Ansaldo, la collaborazione con l’Università di Milano e la mostra del 2004 alla Rotonda della Besana: esperienza che l’ex rettore di Palermo Roberto Lagalla conosceva bene «abbiamo preso lei come modello» lo accolse appena arrivato in città.
Leggenda metropolitana vuole che Valsecchi abbia venduto un quadro, pare un Richter, per comprare Palazzo Butera, leggenda che intriga ma di cui ci si dimentica dentro il Palazzo, quando si sale lo spettacolare scalone di ingresso, si guarda il soffitto con il putto restaurato, si scende a pianterreno dove nel Settecento c’erano le cucine e adesso c’è una radice di jacaranda visibile dal pavimento a vetri, stretta fra ottocentesche maioliche; si entra nella biblioteca con in alto l’iscrizione «Tecta lege lecta tege», massima cara a Gesualdo Bufalino (leggi i libri qui custoditi, custodisci i libri dopo averli letti).
Nella biblioteca ancora vuota accatastati al centro solo scatoloni, sarà riempita con libri e cataloghi d’arte accumulati in anni di collezionismo: «Sarà un centro di studio aperto alla collettività» dice Valsecchi prima di uscire sulla terrazza ora lastricata di maioliche bianche e verdi da cui decollò la prima mongolfiera in Sicilia.
Allunga poi lo sguardo a ciò che c’è attorno a Palazzo Butera, lo Steri, l’Archivio di Stato, Palazzo Abatellis, l’Oratorio dei Bianchi, lo Spasimo, l’Orto Botanico; arriva ai Quattro Canti «dove tre dei quattro palazzi sono chiusi o in abbandono. Ci sono almeno altri quindici palazzi come il Butera pronti per essere acquistati, ma per investire in Sicilia ci vuole coraggio». Mi accompagna all’ingresso, guarda l’orologio, si è quasi fatta ora di cena, lo raggiunge Giovanni Cappelletti, il suo architetto «aspettiamo qualche minuto e andiamo – gli dice – alle 7 e 37 sfornano il pane più buono».