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 2018  ottobre 07 Domenica calendario

In morte di Montserrat Caballé

Alberto Mattioli per La Stampa
L’applauso più clamoroso documentato da una registrazione di un’opera toccò a lei. Siamo nel 1968, al Maggio Musicale Fiorentino,
Il trovatore
, la grande aria di Leonora del quarto atto, «D’amor sull’ali rosee». È il notturno più bello e disperato mai scritto da Verdi e forse da chiunque altro. Il timbro di madreperla, i trilli meravigliosi, i fiati interminabili, ogni possibile gradazione di «piano» lo trasformano in un momento metafisico, un tempo sospeso di bellezza indicibile. E alla fine, giustamente, il teatro esplode.
 
La donna cui dobbiamo molte di queste meraviglie, María de Montserrat Viviana Concepción Caballé i Folch, è morta ieri a Barcellona dov’era nata nel 1933. Crebbe negli anni difficili del dopo guerra civile, fu aiutata per studiare, fece la sua brava gavetta a Basilea e nei teatri tedeschi e nel ’65 divenne famosa nel più classico dei modi: una sostituzione dell’ultimo momento per una Lucrezia Borgia alla Carnegie Hall di New York. Nello stesso anno debuttò al Met, nel ’67 in Italia con Il pirata a Firenze, nel ’70 alla Scala sempre per Lucrezia (ma dieci anni prima ci era già passata, comprimaria nel Parsifal), due anni dopo fu a Milano la prima e per ora ultima Norma d.C.
Il dopo Callas
Erano, appunto, gli anni del dopo Callas. L’interesse era per tutto quel mondo fra Rossini e Verdi di cui la Somma aveva riaperto la riscoperta. La Montse arrivava al momento giusto, portando a quel repertorio la sua scienza belcantistica e la sua coscienza d’interprete, per la verità un po’ intermittente, il suo controllo sensazionale del fiato, la facilità nelle agilità, la nobiltà dell’accento. Nessuno è perfetto, men che meno in palcoscenico. Non aveva un registro acuto estesissimo, e il fisico è sempre stato quello che è stato: enorme. Lei, peraltro, ci scherzava: «Se faccio Mimì? Certo, con un letto rinforzato».
I Settanta furono gli anni d’oro, tante regine di Donizetti anche minori (tipo Sancia di Castiglia o Parisina d’Este o Gemma di Vergy), tanto Bellini, una clamorosa Semiramide nel 1980 con la Horne ad Aix. Poi fu l’ora dei Verdi e di Puccini e dei veristi, insomma di tutto, con risultati talvolta alterni ma spesso affascinanti, in un repertorio sterminato che andava da Händel a Strauss. A proposito: una Salome lunare e arcana, anche alla Scala, ovviamente ferma immobile anche e soprattutto nella danza dei sette veli.
Metteva in repertorio tutto, incideva tutto, cantava tutto. Talvolta troppo, sicché la Señora si fece con gli anni anche una consolidata fama di inaffidabilità, con forfait a ripetizione e sparizioni last minute. Ci doveva essere lei, nella Bolena dell’82 a Milano, passata alla storia perché fu l’unica volta in cui il pubblico della Scala impedì l’andata in scena di uno spettacolo. Dopo giorni di Caballé sì-Caballé no e canta-non canta, all’annuncio che alla fine non avrebbe cantato e al suo posto l’avrebbe fatto una milite ignota, la Scala esplose, e questa volta non dalla gioia: dopo ululati e fischi, niente spettacolo, tutti a casa e biglietti rimborsati.
Sublime nella difficoltà
Però era sublime anche come cialtrona. Nell’87, a Pesaro, fu Ermione all’attesissima prima in epoca moderna dell’edizione critica del capolavoro di Rossini. Bastarono dieci minuti per capire che aveva una conoscenza più che approssimativa non solo della musica, ma perfino delle parole. Alla fine, di fronte a bordate di fischi e di improperi, se ne uscì serafica mostrando lo spartito, roba da Oscar per la migliore faccia di bronzo. Però la serata cui avremmo voluto assistere fu una Tosca a Parigi con Pavarotti: primo atto, i due si siedono insieme ma il banco di Sant’Andra della Valle cede sotto il loro peso stendendoli sul palco come balenotteri spiaggiati, mentre il sipario cala precipitosamente. Puro Marx Brothers.
La dote della simpatia
Era davvero simpaticissima. Guardatela mentre gorgheggia giuliva con Freddie Mercury in Barcelona, poi diventata l’inno delle Olimpiadi del ’92, tuttora forse la riuscita migliore, o meno brutta, in quel campo minato del gusto che è il crossover. E ricordo una comparsata di lei già anziana e traballante a Vienna come Duchessa di Crackentrop nella Fille du régiment Dessy-Florez che era puro camp, esilarante. Sempre più malata, insisteva a esibirsi, spettrale sulla sedia a rotelle come un fantoccio di Goya. Aveva avuto pesanti guai con il fisco, non mollava anche perché le servivano soldi. Ieri se n’è andata, e magari è stata una liberazione. Torna in mente quella Leonora: «D’amor sull’ali rosee/Vanne, pensier dolente». Non possiamo che sentirci un po’ commossi. Ed enormemente grati.

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Giusepe Videtti per Robinson
In Spagna la chiamavano “La superba”, non perché facesse ostentazione delle proprie prodigiose capacità vocali, ma per il rigore e la devozione con cui si era messa al servizio dell’arte. Una medium, una vestale entrata da bambina nel tempio della lirica eseguendo a sette anni cantate di Bach – testarda e diligente, per seguire la sua passione e non deludere chi le aveva finanziato gli studi che la famiglia mai avrebbe potuto permettersi; rigorosissima nell’approccio, posseduta da Wagner, Donizetti, Verdi e Massenet; sublime Salomè, tenera Mimì, indimenticabile Desdemona, precoce Cio Cio-san (aveva 29 anni quando, durante una rappresentazione della Butterfly, il tenore Bernabé Martí, che ora ha 89 anni, la baciò con un tale trasporto durante il primo atto da farle credere che fosse una promessa d’amore – si sarebbero sposati subito dopo), sorprendente partner di Freddie Mercury ( Queen) in quel sontuoso, ridondante e ardito exploit di opera- pop che fu Barcelona ( 1987). “Io rabbrividisco quando sento dire che il carisma dell’artista rende migliore un’opera”, ci disse in una delle ultime interviste, nel 2012, poco prima dell’ictus che l’avrebbe obbligata al ritiro dalle scene, Montserrat Caballé, il soprano catalano, morta ieri a 85 anni nella sua Barcellona. “La musica è un’espressione dell’anima e del sentimento del compositore; è lui, sempre, il vero artista della serata, è lui che ha creato, lui che sta mandando un messaggio. Il cantante è il suo schiavo fedele. Tutti pensano che Caruso avesse una grande personalità mentre cantava un’aria al Metropolitan. Non è così, io l’ho visto – fermo, immobile, solo la voce vibrava nell’aria”. In controtendenza con i sovrintendenti che oggi pretendono da tenori, soprani e baritoni baldanza e abilità attoriali fuori dal comune, la Caballé, a ottant’anni, ancora abbassava gli occhi in segno di rispetto nominando Verdi e Puccini, come quando, religiosissima, si genufletteva davanti all’Altissimo.
Gli esordi, negli anni Cinquanta, non erano stati facili. A Roma un famoso impresario la liquidò: “Non sei tagliata per questo lavoro, torna a casa, sposati e metti su famiglia”. “Poi, quando diventai famosa, non la finiva di raccomandarmi: non ti verrà in mente di raccontare quell’episodio”, ricordava la Caballé, protagonista di oltre 90 ruoli e 4000 performance, con una di quelle sue risate incontrollabili e generose. In Italia tornò da diva, forte di un trionfale debutto nella
Bohème nel 1956 e un’acclamata Lucrezia Borgia newyorkese, dove nel 1965 non fece rimpiangere l’indisposta Marilyn Horne che fu chiamata a sostituire: a Napoli (“Il San Carlo ha l’acustica migliore del mondo”), Firenze, Roma, Milano (una memorabile Lucrezia Borgia, nel 1970), Venezia, Ravenna.
Diva di stazza e di temperamento: una volta, durante una rappresentazione de Il viaggio a Reims al Covent Garden, in un gesto d’ira scagliò una mela contro il direttore d’orchestra; un’altra volta scaraventò una seggiola fuori dal palco perché non ce la faceva a reggere il suo peso.
I critici, Felipe VI re di Spagna, il collega José Carreras e Brian May dei Queen che ne piangono la scomparsa sono tutti d’accordo: insuperabile voce del dopo-Callas, nonostante quella matrona austera e regale non avesse offerto molta materia a gossip e tabloid. L’unica “scappatella”, trent’anni fa, quando, in anticipo sul Pavarotti & Friends, si concesse una stravaganza pop incidendo un inno olimpico e un intero album ( Barcelona) con il cantante dei Queen. “L’occasione delle olimpiadi era ghiotta e l’incontro con Freddie Mercury irrinunciabile – eravamo entrambi pazzi di Richard Strauss —, così mi presi volentieri una breve vacanza dalla routine.
Non sono un’appassionata di pop, perché la disciplina dell’opera non lascia tempo sufficiente per esplorare e conoscere, e neanche per feste e sale da ballo. Il nostro percorso esige disciplina, pazienza e dedizione; anni di studio: canto, composizione, repertorio. Ma prima di tutto ci vogliono amore, devozione, passione, curiosità. Il talento naturale non basta”.
Nel periodo in cui Mercury, che la chiamava Montsy, le confidò di avere l’Aids, al soprano dopo un tormentato recital alla Carnegie Hall fu diagnosticato un tumore al cervello localizzato all’ipotalamo. “Mi diedero pochi mesi di vita”, ci raccontò, “mi proposero un delicato intervento chirurgico. Potrei continuare a cantare, dopo?, chiesi. Mi risposero di no, così preferii affrontare il cancro a modo mio”. Mentre Freddie era rassegnato di fronte all’aggressione di una malattia che stava sconcertando la comunità scientifica, Montserrat reagì con la consueta determinazione. Quando dopo anni di cure palliative e omeopatiche un luminare esaminò di nuovo il suo caso, esclamò: “Lei è una strega!”. Aveva ragione, con la grinta e l’intuito che l’avevano salvata dalla miseria e dall’anonimato si è conquistata una insperata terza età.
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Enrico Girardi per il Corriere della Sera
All’apprendere che ieri mattina è mancata dopo una lunga malattia nella sua Barcellona Montserrat Caballé, 85 anni, chi non è appassionato d’opera è probabile che esclami: «Chi, quella che cantava Barcelona con Freddie Mercury nel ’92?». Niente di male, perché Montserrat Caballé è anche quella: quel soprano, che in quell’occasione straordinaria fu capace di catturare l’attenzione del pianeta duettando, lei, La Superba (questo il suo appellativo), la sua voce impostata, con la non meno superba (e non impostata) voce rock dell’indimenticabile frontman dei Queen: una cosa che, a rivedere il video, fa emozionare ancora oggi, 26 anni dopo. Che classe, che sprezzatura, che personalità: niente a che vedere con le comparsate pop di altri colleghi a caccia di notorietà o di elisir di lunga vita.
Per ricondurre le cose alla loro dimensione più autentica, occorre tuttavia dire che con La Superba si è spento, dopo Renata Tebaldi, Maria Callas e Joan Sutherland, l’ultimo dei quattro punti cardinali della vocalità sopranile del XX secolo. Con lei entra definitivamente nella leggenda quel perimetro probabilmente irripetibile di voci da soprano che ha reso permanentemente viva, nella mente e nel cuore dei contemporanei, la storia dell’opera. Non è un iperbole. L’ha dimostrato in oltre 4000 recite d’opera, interpretando più di 90 titoli. Quelli di Bellini, Donizetti, Verdi e Puccini sono, dovendo proprio scegliere, i più significativi per quantità e qualità. Paradossalmente, la sua è stata una carriera «normale». Non ha iniziato giovanissima – debuttò 23enne nel ’56 a Basilea ma il primo trionfo risale al ’65, quando sostituì Marilyn Horne a New York nella Lucrezia Borgia di Donizetti —; non ha bruciato le tappe poiché alla Scala (ancora con Lucrezia Borgia) e negli altri teatri d’opera europei di alto lignaggio debuttò al principio degli anni Settanta (l’esordio italiano fu al Maggio Fiorentino del ’67 con Il pirata) e con il progredire degli anni ha ridotto progressivamente gli impegni fino all’addio nel 2013.
Per oltre 50 anni, dunque, Montserrat Caballé ha esibito – rarissime le cadute – le sue superbe (appunto) qualità, messe peraltro al servizio di un’amplissima porzione della storia della vocalità. Dalla tradizione rinascimentale a Mozart, da Rossini ai Veristi, da Wagner a Strauss, da Bizet a Offenbach (e così anche la geografia è coperta per intero), non v’è tipologia di stile vocale che Caballé non abbia affrontato: quello sacro, quello da camera e quello leggero, oltre naturalmente a quello operistico. E tale è stata la sua versatilità, che è praticamente impossibile collocare oggi l’interprete catalana nella categoria dei soprani drammatici piuttosto che dei soprani lirici, senza dimenticare che anche nelle parti «di coloratura» ha detto la sua.
Tale versatilità le era permessa da un senso innato dello stile. Non uno dei direttori d’orchestra con cui ha lavorato – inutile elencarli, dei migliori non manca nessuno – ha dovuto faticare per ottenere i fraseggi, i colori, gli accenti del caso. Come i massimi esponenti nei rispettivi campi, si esprimeva con semplicità e naturalezza, senza ghirigori. L’ha sostenuta una voce fatta da un timbro luminoso, da un volume generoso (che belli però i suoi acuti in pianissimo) e da uno stupendo «legato», insieme profondo, morbido e vellutato. E anche quando affrontava parti che esigono consistente spinta drammatica, riusciva a produrre trasparenza e un’ineffabile leggerezza tutta sua, senza dare l’impressione della benché minima fatica. Maria Callas aveva identificato in lei la sua erede. Non sembra esserci un soprano che possa dirsi oggi l’erede di Montserrat.