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 2018  ottobre 07 Domenica calendario

Da negro a frocio, tutte le parole che non possiamo più dire

Il direttore di questo giornale ha detto: «Io la guerra del dizionario non la voglio fare». Altri, però, la vogliono fare eccome, anzi, la fanno, e muovono le truppe contro chi – a Libero come altrove – pronuncia e scrive dei termini che erano usuali ma che oggi sono diventati misteriosamente offensivi, discriminatori, sessisti eccetera: in una parola, scorretti. E non fa niente se ‘negro’ o ‘frocio’ sono lemmi presenti sul vocabolario e sono adottati da una larga parte di popolazione che è disattenta ai campi di battaglia semantici. E non fa niente, neppure, se questi lemmi non sono cambiati per nuove conoscenze e sensibilità, o per nuove esigenze scientifiche o sociali: perché sono perlopiù delle mode linguistiche d’importazione, legate alle prepotenze di qualche minoranza. Con internet, e con lo sdoganamento dell’ignoranza, qualsiasi cosa tu dica c’è qualcuno che s’offende: così, oggi, non si sa come parlare, se non con quella che i francesi chiamano langue de bois, lingua di legno. Di seguito, perciò, una modestissima e incompleta guida per capirci qualcosa, o, come auspichiamo, per rifiutarsi di farlo.

BISESSUALI. Ormai è troppo generico. In genere s’include gli omnisessuali, i fluidi e i queer (mancano solo gli ‘uomini sessuali’ di Checco Zalone) da non confondere col generico mondo transgender: ma molti transessuali e intersessuali su questo non concordano. Per spiegarci meglio, però, dovremmo approfondire l’influente legislazione australiana contro le discriminazioni, secondo la quale l’intersessualità è un attributo biologico distinto sia dall’identità di genere che dall’orientamento sessuale. Andrebbe poi approfondito come la sigla Slg (same gender loving, amore per lo stesso sesso) sia preferito dai neri (o negri) per distinguersi dalle comunità dominate dai bianchi. State pensando che non avete capito niente: siete normali. Anzi, no, si dice normodotati. Anzi no: «Non ha senso parlare di normodotati, definizione che contiene un giudizio fra chi può essere considerato normale e chi no. La persona dotata di normalità non esiste» (tratta da un sito che non vogliamo citare).
BOLDRINISMO. Trascurabile forma caricaturale del politicamente corretto: ha il potere di ottenere celermente il contrario di quanto si prefiggeva.
BOLDRINA. L’ex presidente della Camera ha condotto una battaglia per declinare al femminile certi ruoli che storicamente sono stati riservati agli uomini. Anche il ‘Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione’(novembre 2017) ha invitato (punto 3) ad «adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali». L’impressione tuttavia è che certi cambiamenti non abbisognino di strappi o forzature, servirà solo tempo; se molti dicono ‘maestra’ o ‘contadina’ ma faticano a dire ‘ministra’ o ‘assessora’, una ragione c’è: anzitutto perché, a chi non è abituato, suonano da schifo, anzi, scrivere ‘sindaca’ pare una presa in giro. Non serve la regoletta, serve la consuetudine che scaturisce da una parità professionale progressivamente raggiunta. Si dice, da sempre, ‘la’ preside e ‘la’ maestra perché sono sempre state la maggioranza. C’è, poi, la questione scrittòria e giornalistica: scrivere ‘la Boldrini’ e non ‘Boldrini’ fornisce un’informazione in più e fa capire che stiamo parlando di una donna. Per la stessa ragione è utile scrivere ‘signora presidente’ o ‘signora ministro’. Alcune femministe americane vorrebbero addirittura abolire il suffisso ‘man’ da ogni parola: persino woman (donna) diverrebbe womyn. Da immaginarsi i problemi con mankind (umanità) e chairman (presidente, direttore) e addirittura history (la Storia, perché his è aggettivo possessivo maschile). 
BUROCRATESE/GIORNALESE. Non vanno confusi col politicamente corretto: da sempre c’è chi dice estremità al posto di piede e sacerdote al posto di prete. Sui giornali tizio si reca nei posti anziché andarci, o ancora si spegne al posto di morire. Ma è più che altro una questione di pruriginosa educazione borghese.
CANCRO. Termine un po’ crudo e poco gentile, se scrivi tumore va meglio, se scrivi neoplasia tutti tirano un sospiro di sollievo anche se fosse terminale.
CHECCHE. Espressione scorrettissima, ma molto utile per denominare un certo tipo di omosessuali. Così come gli eterosessuali si distinguono anche in truzzi e in sciampiste, anche i gay possono essere più o meno sobri o caricaturali. Durante la discussione in Senato sulla Legge Cirinnà (unioni civili) tra il pubblico c’erano due tizi vestiti come al Gay Pride che si sbaciucchiavano e si atteggiavano come Ugo Tognazzi ne Il vizietto, e lì, al Senato, forse manco dovevano entrarci, esattamente come non dovrebbe entrarci l’ultima coppia di tronisti esibizionisti (eterosessuali, omosessuali, chi se ne frega) o chiunque si affacci al Parlamento solo per provocare. La checca è questo: la ridicola enfatizzazione di un certo autocompiacimento gay.
CIECO/SORDO/ MUTO. Non si dice più. Al limite all’aggettivo sostantivato si antepone ‘persona’ cieca, sorda eccetera: perché la disabilità è una caratteristica della persona, non una malattia. Va bene anche ipovedenti, ci dicono, e audiolesi.
CLANDESTINO. La Lega Nord è stata condannata a pagare 14mila euro perché nel 2016 usò il termine ‘clandestini’ anziché ‘richiedenti asilo’ in alcuni manifesti: la condanna fu per via del «carattere discriminatorio e denigratorio dell’espressione clandestini», la quale favorirebbe «un clima fortemente ostile nei confronti dei richiedenti asilo». Insomma, prima di aprire bocca occorre informarsi se stiamo parlando di un migrante regolare o irregolare, un clandestino o un rifugiato, un richiedente asilo o un profugo, un apolide o sfollato, un beneficiario di protezione umanitaria, un beneficiario di protezione sussidiaria, una vittima di tratta, un delinquente, un terrorista. 
CLOCHARD/HOMELESS. Termini francese e inglese: gli italiani mendicante, vagabondo o barbone non andavano bene. Tuttavia la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (roba che esiste) ora dice che clochard non va bene, perché porta con sé un’accentuazione romantica.
COLERA. Già che ci siamo. La prossima volta basterà scrivere che a Napoli ci sono stati dei casi di una tossinfezione dell’intestino tenue da parte di alcuni ceppi del batterio gram-negativo, che i bambini sono i più soggetti a contrarre l’infezione e che le aree che hanno un rischio permanente di malattia – come è vero – comprendono l’Africa e l’Asia sud-orientale.
CRETINO. Si usa ancora tranquillamente, ma in teoria dovrebbe avere le ore contate: un cretino è un affetto da cretinismo, brutta malattia che potrebbe far soffrire i genitori di qualche cretino patologico. Non è una battuta: in passato, sullo scrivente, piovvero critiche per aver adottato l’espressione ‘cerebrolesi’ a proposito di alcuni grillini. S’incazzò un sacco di gente e anche una onlus.
DEMENTE. Si deve dire «persona colpita da malattia neurodegenerativa» (lunghetto) perché demente è troppo generico: rischi di offendere le vittime di Alzheimer, demenza precoce, demenza schizofrenica, demenza arteriosclerotica, sindrome schizofrenica, paranoica e umorale.
DISTURBATO. Non va bene, bisogna usare ‘persone con sofferenza mentale/psichica’. 
DIVERSAMENTE. Inventata dall’Onu, è già passata di moda: la vulgata ha fatto notare che nessuno è «diversamente abile: o è abile o non lo è». Quel ‘diversamente’ fa venire in mente che tizio sia ‘diverso’, quindi inferiore. Ormai è un’espressione da presa in giro: ‘Diversamente onesto’, ‘diversamente bello’ eccetera.
EBREO. Qui non si capisce: di recente anche chiedere «lei è ebreo’» (Stefano Lorenzetto sul Corriere della Sera) è stato giudicato antisemita, il che denota quantomeno dei complessi atavici. Per alcuni (gentaglia, tifosi, roba così) ebreo è un insulto che equivale a mancanza di scrupoli negli affari, attaccamento al denaro, avidità di guadagno, propensione all’usura e alla mafioseria. Ergo, arrabbiarsi equivale a un processo alle intenzioni. Le comunità ebraiche s’incazzano anche se qualcuno (accadde alla Gialappa’s) usa ‘rabbino’ per dire ‘tirchio’.
FEMMINICIDIO. Espressione distorta che fa solo casino, perché ciascuno, spesso, le dà significati diversi. È l’omicidio di donne da parte di conoscenti o partner. Dopodiché non c’è tema sul quale sia stata fatta più mistificazione: ogni campagna di sensibilizzazione è legittima, ma sul tema è stato detto che il fenomeno è in aumento quando invece è in declino, è stato detto che sono tanti quando in Italia la media è inferiore a quella europea, è stato detto che trattasi di «eredità arcaica» anche se i femminicidi sono più frequenti nel Norditalia. Il citato ‘Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere’ intima l’obbligo di «utilizzare il termine specifico per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne», ma anzitutto non è sempre facile stabilire se una persona sia stata assassinata «in quanto donna» o in quanto altre cose, dopodiché va rilevato che la maggioranza spesso fa proprio il contrario, ossia, ogni tanto, prende a chiamare ‘femminicidio’ l’omicidio di qualsiasi femmina.
FEMMINICIDIO 2. Il succitato manifesto (ma anche un decalogo del sito Femminismi) invita poi a non usare termini «fuorvianti come amore, raptus, follia, gelosia e passione accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento». Ma anche qui: servirebbe un Freud da scrivania per avere la certezza che gli omicidi siano sempre dettati da volontà di possesso e annientamento e mai da amore, raptus, follia, gelosia e passione. Il manifesto intima pure a evitare «immagini e segni stereotipati che riducano la donna a mero richiamo sessuale o oggetto del desiderio». Come se non ci fossero anche tante donne che fanno di tutto per ‘ridursi’ a richiamo sessuale assolutamente da sole. 
FROCIO. È volgaruccio e deriva dal romanesco, ma il suo uso o abuso è legato anche alla mancanza di un’alternativa credibile nel linguaggio parlato: omosessuali sa di accademico, gay di effimero, il resto di Benigni: finocchio, ricchione, invertito eccetera. 
GAY. Termine comune, un tempo dispregiativo, ma ormai sdoganato dagli stessi gay e preferito al più scientifico omosessuali. È lecito trovarla una parola ridicola (viene dall’inglese e significa ‘gaio, allegro’) e già dal suono si prende in giro da sola. Usarla non può essere obbligatorio. Già che ci siamo: non sta scritto da nessuna parte che debbano piacere a tutti anche i Gay Pride o altre baracconate controproducenti, o che non possa infastidire l’autocompiacimento gay indubbiamente presente in certe professioni. 
GENDER FLUID. Altra espressione che è lecito rifiutare o neppure conoscere. Oltre vent’anni fa è stato coniato l’eterno neologismo ‘metrosexual’, passato alla storia come definizione di un uomo non gay ma attento alle mode, alla cura di sé, che si profuma, mette creme e insomma capito. In precedenza è roba che non c’era: c’erano direttamente i gay o dei fantasmi che comparivano solo sulle riviste di moda. A spingere, ovviamente, c’era un mercato che non vedeva l’ora di raddoppiare determinate entrate, con l’editoria e il mondo fashion a raccontarti che la donna disdegnava il bruto ed era orientata all’uomo ben curato, addirittura al narcisista. È nata anche così una generazione in parte soporifera e noiosa, con barbe inutili già a vent’anni, oppure, ecco, senza un pelo, sempre al centro estetico a farsi depilare il sedere e la schiena e le gambe e le braccia e l’ascella e il petto e le orecchie e le nocche e pure il pene. Il residuo di virilità è ricercato nello sport inteso come fabbrica per scolpire il corpo. Se qualcuno vuol parlare o scrivere di frocizzazione dell’uomo, dovrebbe essere libero di farlo.
GUERRA. La sostanziale soppressione del termine ‘guerra’ resta una formidabile vittoria della sinistra dalemiana: di volta in volta è divenuta missione di pace, intervento umanitario e operazione di polizia internazionale. Le discussioni su una cosiddetta resistenza irachena (altri l’hanno chiamata terrorismo) ne sono state la mera conseguenza. 
GRASSO. Guai. Si dice sovrappeso.
HANDICAPPATO/DISABILE. Qui è un casino. La prima espressione faceva fico negli anni Ottanta, l’altra ha fatto breccia dai Novanta. Nel 1999 l’Organizzazione mondiale della sanità ha deciso che ‘disabilità’ era un termine positivo mentre ‘handicap’ no, eliminando quest’ultimo da ogni documento. Da allora è stato un susseguirsi di espressioni e contro-espressioni, come se tutti potessero star loro dietro. ‘Invalido’ è diventato offensivo, secondo alcuni anche ‘inabile’, offensivo anche ‘menomazione’ o secondo alcuni anche ‘disabilità’. Spiegazione: non si deve dire ‘malato di’ e ‘soffre di’, perché la disabilità non è una malattia; non si deve dire neanche menomato e appunto handicappato e neppure ‘portatore di’, perché ‘portare’ indica un vincolo e quindi uno svantaggio, e tra l’altro chi porta qualcosa dovrebbe avere la possibilità di lasciarla quando vuole. Avete imparato a memoria?
IDIOTA. Occhio, perché è una sindrome psichica che – unitamente all’imbecillità – fa parte di un gruppo di malattie mentali. Come per il cretino (cretinismo) prima o poi salterà fuori un’associazione di genitori di idioti che lamenterà offesa e discriminazione. 
INTEGRAZIONE. Bisogna dire ‘inclusione’, anche se non sono sinonimi manco per niente. Se poi dite ‘interazione’ e ‘assimilazione’, quelli di Emergency vi stendono la passatoia.
LESBICA. Suona male ma si può dire: solo in Italia, però. Nel mondo anglofono si dice gay anche per le donne, da noi no, le donne non sono d’accordo, così la denominazione di Arcigay (1985) dopo qualche anno riconobbe il nome di Arcigay-donna che poi divenne Arcigay-Arcilesbica fino alla scissione in Arcigay e Arcilesbica.
LGBT. Espressione infelice e pochissimo musicale che è l’adattamento di Lgb che sostituiva ‘gay’ che secondo alcuni non rappresentava bene tutti i gay. L’acronimo Lgbt doveva enfatizzare la diversità delle culture basate su sessualità e identità di genere, o essere usato per distinguere chi fosse non-eterosessuale e non-cisgender (cominciano i casini) rispetto a chi fosse solo lesbica, gay, bisessuale o transgender. Infatti molti gay (li chiamiamo tutti gay, scusate) rifiutano Lgbt e aggiungono una Q per identificarsi anche nei queer o in coloro che stanno ancora ‘interrogando’ la propria identità: da qui la sigla Lgbtq, che esiste da 12 anni anche se altre persone denominate ‘intersessuali’ suggeriscono di estendere l’acronimo a Lgbtqi o di combinare i due acronimi in Lgbtqi. Capito niente’ Siete normali, anzi normodotati. Anche perché le varianti esistono e lottano tra loro. Lgbt e Glbt sono i termini più comuni (Lgbt è più femminista, perché la L sta per lesbica) ma tutto si riduce a Lgb quando non include i transessuali; l’aggiunta della Q può stare per queer o per questioning, cioè in dubbio (a volte si usa un punto interrogativo) o comunque non facilmente identificabile con L, G, B o T. Ecco perché ci sono anche le varianti Lgbt o Lgbtqq. Ma se esci dalla provinciale italietta e vai nel Regno Unito, per esempio, trovi lo stilizzato Lgb&t, anche se il partito dei Verdi d’Onghilterra e Galles usa il termine LGBTIQ. Insomma fanno casino, e lo fanno apposta, la chiamano alphabet soup, zuppa alfabetica.
LGBT 2. Il solito ‘Manifesto delle giornaliste’ eccetera ha invitato a utilizzare «il corretto linguaggio di genere come raccomandato dalla comunità LGBT». Come compreso alla voce precedente, del «corretto linguaggio di genere raccomandato dalla comunità LGBT» ce ne si può anche fottere, con permesso.
MANICOMIO. Dovete dire centro di salute mentale, involuti.
MALATO. Questa parola è stata abolita perché è da insensibili. Bisogna sempre dire «persona affetta da», «persona colpita da».
MONGOLOIDE ECC. Non si deve dire ritardato, handicappato mentale oppure down perché è sbagliato identificare una persona con la sua disabilità o la sua sindrome. Mongoloide viene considerato dispregiativo e la relazione tra la popolazione mongola e le persone con sindrome di Down (i mongoloidi) è arretratezza culturale. Si deve dire «persona con disabilità intellettiva» o «persona con sindrome di Down». Marco Travaglio, in tv dalla Gruber, di recente ha detto «mongoloidi» facendo un discorso sugli elettori grillini. Per qualche ragione, non tutti si sono scandalizzati. Travaglio ha poi precisato che «intendevo far notare che si stava trattando 8 milioni di elettori come altrettanti handicappati mentali», non sapendo di essersi cacciato in un altro guaio (vedi voce).
PATRIA. Questa la mettiamo per curiosità patologica. La scrittrice femminista supercorretta Michela Murgia (ambiente Repubblica) ha sostenuto che dovremmo chiamarla ‘Matria’: dice che Patria «è l’estensione del maschile genitoriale» (ius sanguinis e ius soli) che coi suoi patriarcati, nazionalismi e patriottismi squalifica lo stare insieme. La ‘Matria’, invece, è la prima cosa amata, nutre e si prende cura, non evoca autorità ma gratitudine. Ora: a parte che non sapremmo collegare questa visione col fatto che la Murgia è favorevole all’indipendenza della Sardegna, alla scrittrice forse sfugge che nulla è già più femminile del concetto di Patria, cioè di ‘terra’. Si dice, non a caso: la Madre Patria.
PEPPA PIG. Una mozione del Parlamento europeo ha attaccato il cartone animato ‘Peppa Pig’ perché infastidisce i musulmani e perché i bambini restano ignari – dicono – dei maltrattamenti riservati alle bestie. Ergo, visioni clandestine. Si può dire clandestine’ 
NANO. Non si è mai capito se l’espressione ‘verticalmente svantaggiato’ fosse reale o una barzelletta. A ogni modo ‘nano’ non si può dire, è brutto, a meno che sia Berlusconi («psiconano» o «nano bavoso», definizioni di Grillo, anche se Berlusconi è alto esattamente come Prodi: la rivista Internazionale ha rilevato che nel blog di Beppe Grillo ‘psiconano’ compare 1.900 volte) o a meno che sia Renato Brunetta, omaggiato anche da Furio Colombo con un «mini-ministro» e da Massimo D’Alema che lo chiamò «energumeno tascabile». Il termine supercorretto comunque sarebbe ‘affetto da acondroplasia’, una displasia scheletrica.
NEGRO. Qui andiamo ai pazzi. Negro andava bene, un tempo, e nessuno pensava di cambiare la canzone di Edoardo Vianello in «siamo i watussi/gli altissimi afro-americani» o pensava che la negromanzia fosse una tratta schiavista o che le celebri carte ‘Dal Negro’ fossero roba da Ku Klux Klan. La parola negro nelle diverse regioni italiane è tanto più usata oggi ed è presente nella maggioranza dei vocabolari: «Chi appartiene alle diverse razze del ceppo negride, originarie del continente africano». Lo scrivente, alle medie, fu costretto a leggere Ragazzo Negro di Richard Wright (Black Boy). Poi si passò a ‘nero’ che ricordava l’anglo-americano black (Black power) e a ‘di colore’ che veniva da coloured. Ma senza drammi: «Il 24 per cento degli italiani non vorrebbe avere una relazione sentimentale con un negro», ascriveva il settimanale Epoca nel 1987. Oggi è vituperio. L’espressione «di colore», per contro, è derisa dai negri secondo i quali di colore siamo solo noi bianchi: rosa alla nascita, rossi al sole, blu al freddo e grigi da morti. Negli Usa ci sono state commissioni per eliminare la parola ‘negro’ dai libri di Mark Twain e da altri ancora. Qualcuno ha tentato d’introdurre ‘afroasiatico’ o ‘afroamericano’ (sette sillabe) prima di acquietarsi – da noi – sull’evasivo extracomunitario o immigrato di colore, inteso quasi sempre come color marrone. Suggerimento: se i bianchi li chiamassimo ‘biancri’ risolveremmo ogni problema.
NON. C’è stato un moto contro-rivoluzionario e il ‘non’ davanti a qualcosa è diventato scorretto. La comunità dei sordi, ad esempio, si dichiara appunto sorda anziché ‘non-udente’, così come i ciechi si autodefiniscono ‘ciechi’ anziché ‘non-vedenti’. Si sono stufati. Ma i maestrini della parola insistono: si deve dire «persona con disabilità sensoriale», «persona con disabilità visiva (o disabili visivi)», «persona con disabilità uditiva», «persona con deficit visivo» e «persona con deficit uditivo». Due palle. Vorrei vederli a fare i titoli dei giornali.
ODIO. In teoria non si può scrivere di odiare qualcosa. Se si additasse qualcuno, si può capire: sarebbe istigazione. Ma a quanto pare non si può odiare neppure un movimento religioso e culturale come l’Islam. Lo scrivente, per quest’ultimo caso, fu sospeso per 3 mesi da professione e stipendio, pena poi riconvertita in semplice ammonimento. 
PARALITICO. Si dovrebbe dire «non deambulante». Orrore.
PERVERTITO. Gli ignoranti lo usano come sinonimo di omosessuale, ma il pervertito è un malato interessato a pratiche di pedofilia, zoofilia, necrofilia, feticismo, esibizionismo eccetera. Oggi comunque si dice «affetti da parafilia». 
POVERO. Si dovrebbe dire «di modeste condizioni sociali».
RAZZISMO. Espressione usatissima che andrebbe abolita perché è ormai provato che le razze non esistono, anche se sopravvivono come creazioni simboliche a ridosso di etnie e culture. Molto meglio parlare di xenofobia.
SPASTICO. Classico insulto da ragazzini (magari per sfottere chi si muove strano) che non si può dire perché offende qualche associazione. Lo spastico è affetto da paralisi spastica dovuta a una lesione cerebrale che determina contrazioni della muscolatura volontaria.
STORPIO. Si dice «persona con disabilità motoria o fisica».
SUBNORMALE. Si dice «persona con disabilità intellettiva e/o relazionale».
RICCO. Se è un amico, è benestante.
UNGENDERED. Ecco un esempio di come ci prendono per deficienti. Un paio d’anni fa il marchio Zara lanciò con clamore la linea Ungendered che «è stata pensata per poter essere indossata indistintamente da uomini e donne», perché è una collezione con «gli stilemi gender-fluid» fatta per chi «non si riconosce in un’identità sessuale binaria». Minchia. Cioè: all’alba del 2016 avevano scoperto l’unisex.
VECCHIO. Non è vecchio, è anziano.
VU CUMPRÀ. Si dice «venditore ambulante», anche se l’espressione non fa capire che è negro.
ZINGARO. Oggi suona spregiativo. Un tempo erano quelli che vivevano nelle roulotte, spesso avevano circhi o giostre ed erano originari dell’India. Vivevano in accampamenti. Oggi si dice rom, che pure è inesatto perché non distingue tra romeni, rumeni, rom, rom romeni, rom non romeni, rom polacchi, zingari, sinti, gitani, tzigani, kalé, boyash, manush, ashkali, egyptians, yenish, travellers, dom, lom e generici nomadi italianizzati. L’Associazione Stampa Romana considera scorretto l’appellativo zingari e suggerisce rom e sinti. I documenti ufficiali europei usavano nomadi e zingari, ma ora utilizzano solo Roms, al plurale.
ZOPPO. Parola di cinque lettere. E però dovremmo sostituirla con «persona con una ridotta funzionalità degli arti inferiori». E questa persona mica zoppica, mi raccomando: è claudicante.