Il Messaggero, 7 ottobre 2018
Viaggio nella sede della Pixar
Non ci fosse la sbarra a ricordare che il quartier generale della Pixar è vietato al pubblico, sembrerebbe un Luna Park. Sono in 1200 a lavorare nel campus di Emeryville, a est della Baia di San Francisco, vicino all’Università di Berkeley, culla della controcultura americana. Se non ci sono riusciti gli studenti sessantottini a portare l’immaginazione al potere, ce l’hanno fatta i creativi della più grande industria cinematografica di animazione al mondo, che girano per i viali in monopattino, hanno una data di consegna ma nessun dress code e orario da rispettare.
Sul prato troneggia la lampada Luxo (logo dell’azienda) alta 5 metri e nello Steve Jobs Building sono Buzz e Woody in versione Lego ad accogliere, con la famiglia di supereroi, le macchine di Cars, gli Oscar in vetrina meritati in 32 anni, per essere riusciti a fondere arte e tecnologia, travasare poesia nel digitale. L’architettura interpreta la filosofia di Jobs, che nel 1986 comprò Pixar dalla Lucas Film.
I VIDEOGIOCHI
L’edificio è il suo personale film realizzato in 5 anni, quanto qui si impiega per un lungometraggio, e rispetta le inclinazioni del cervello umano: ala destra per gli uffici dei creativi, ala sinistra per i tecnici. Però per incoraggiare scontri e incontri, ha messo a piano terra bagni, caffetteria e cucina comune, nel gigantesco open space che somiglia ad un aeroporto per il decollo delle menti.
Si incrociano matricole e dirigenti di ogni età e provenienza geografica, reclutati attivamente nelle scuole o sui social o assunti via curriculum (30 mila le richieste annue), i nostri talenti Guido Quaroni ed Enrico Casarosa, e un elettrizzato Brad Bird, scrittore e regista de Gli Incredibili, reduce dal successo al box office. È lui che convocò «le pecore nere», gli artisti più frustrati e inascoltati, conquistando due statuette.
In questo posto non serve la coolness della Silicon Valley o di Hollywood, meglio gli strambi e i visionari. Un’identità da tutelare, al punto che quando nel 2006 la Disney acquisì Pixar, furono ben sessanta le condizioni non negoziabili. Accanto allo studio di doppiaggio e al muro con le dediche degli attori (da Tom Hanks a Owen Wilson), c’è la sala cinema, dove è appena stato proiettato un provvisorio Toy Story 4. Esce il 21 giugno e sarà slegato dalla trilogia, concentrato sulla missione dei giocattoli per salvare la pastorella Bo. Gli impiegati sono invitati a recapitare critiche via mail, anche in forma anonima. «Usciti da Toy Story 3, piangevamo tutti» ci confessano alcuni. Il 2 invece fu cestinato. Per rimediare, i disegnatori dormirono sotto la scrivania e rischiarono l’esaurimento. Da allora il sovraccarico di lavoro è bandito.
Il piano superiore è il regno dove il «Siate folli» di Jobs è dogma. Gli artisti personalizzano l’ufficio senza limiti alla stravaganza: c’è chi opera dentro una taqueria messicana, un minka giapponese con lanterne, una capanna nella fitta giungla. Dopo la stanza dei videogiochi, paradiso nerd con Pac-man e cabinati di prima generazione, c’è la sala di dischi in vinile e il palco, perché le band interne hanno il loro festival rock Pixarpalooza. Nelle gallerie sono esposti dai bozzetti originali ai modellini in argilla, poi scannerizzati. Prima del computer, si usano penna e carta (sono migliaia gli storyboard per Ratatouille e Up) e si fa tanta ricerca: libri di anatomia per far muovere gli scheletri di Coco, neonati veri, liberi di fare disastri, per riprodurre la personalità di Jack Jack. Il Brooklyn Building, tra paesaggi scozzesi di Ribelle, squali di Nemo e biblioteca, è il cantiere di ciò che non è annunciato o mai vedrà luce.
IL BILIARDO
Qui i creatori di storie abitano per almeno tre anni, prima di spostarsi nell’edificio dove prendono vita. Siccome le idee spesso arrivano giocando, nel campus sono sparsi tavoli da biliardo, piscina olimpionica, campo da calcio, da basket e beach volley, e la Pixar University, per lezioni di ogni tipo.
Un lavoro da sogno, con guadagni dai 60.000 ai 100.000 euro l’anno. La bufera Me Too, che non ha risparmiato il supercapo storico John Lasseter, non pare abbia compromesso l’atmosfera. D’altronde il sostituito Pete Docter è lì dal 1996, l’uomo dietro Wall E e Inside Out, un metro e 90 che gira in Smart e vive in una casa sull’albero. Divertirsi è una cosa seria. Qualcuno dondola sull’amaca sotto le palme. Ci informano: «Sta lavorando sodo».