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 2018  ottobre 06 Sabato calendario

John Turturro all’opera

Con la sua espressione mite da cane bastonato John Turturro ti parla di quando da ragazzino a Brooklyn, nei primi Anni 70 (e Brooklyn era più Little Italy e povertà che quartiere alla moda con prezzi alle stelle), in casa si ascoltava Puccini a tutto volume, mentre i suoi gridavano tutto il tempo. Viene alla mente il caos allegro di Stregata dalla luna, il film in cui Nicholas Cage, indimenticabile Ronnie Cammareri, trascina Cher a vedere La bohème, sua grande passione. John Turturro sorride: «L’ambiente degli italo-americani era lo stesso. Ma nella mia famiglia il clima era più aspro, le liti tra i miei genitori erano fuochi d’artificio». 
Fatto sta che il 13 al Teatro Massimo di Palermo, col Rigolettodiretto da Stefano Ranzani, si imbatte nella sua prima regia d’opera, dove il tema della famiglia è centrale.
Un padre (George Petean, nelle repliche del 18 e del 20 canterà il leggendario Leo Nucci) il buffone alla corte del Duca di Mantova (Giorgio Berrugi) e una figlia, Gilda (Maria Grazia Schiavo), il simbolo della purezza. 
Lirica passione d’amore?
«Sono cresciuto ascoltando soul, pop, rhythm’n’blues, le melodie napoletane che ho messo nel film Passione. E anche l’opera. I miei parenti erano capaci di confrontare quindici tenori su Di quella pira. Mia madre cantava con i suoi fratelli in una big band jazz, ma senza mire professionali, voleva una famiglia, continuò a esibirsi in chiesa e a casa. Mamma era originaria della Sicilia, papà veniva dalla Puglia, faceva il carpentiere. Da ragazzo lo aiutavo, poi ho fatto il barista e l’insegnante». 
Lei ha recitato per i Coen, Spike Lee, Rosi, ma forse qualcosa di un’origine umile rimane dentro. 
«Assolutamente sì, e mi fa piacere che lo diciamo. Sono una persona normale, quando mi chiedono un selfie resto imbarazzato. Le radici sono fondamentali, soprattutto in un mestiere come il mio. Debutto nella lirica con umiltà. Dei cantanti mi affascinano la forza fisica, l’atletismo». 
Ha modelli di registi?
«No, non ho mai visto quest’opera, l’ho solo sentita in disco. Però vado a teatro, nel 2017 mentre giravo Il nome della rosa, la serie tv dove sono Guglielmo da Baskerville, andai all’Opera di Roma dove c’era una magnifica produzione di Billy Budd di Britten». 
Perché proprio Rigoletto?
«Mi avevano offerto due titoli. Ho scelto questo per la bellezza della musica e la sua modernità, la concisione della drammaturgia; per il tema padre-figlio che in Verdi è centrale. Quando mi telefonarono da Palermo stavo lavorando a una sceneggiatura dove Verdi è dominante. È un film che dirigerò e probabilmente reciterò su due fratelli e una cantante d’opera di colore, una sorta di Desdemona che vorrei ricordasse la grande Leontyne Price. Si parla di gelosia, di classi sociali, di razza, di ignoranza. È un progetto a metà strada tra Rocco e i suoi fratellidi Visconti e Otello».
Per Riccardo Muti, Verdi è il musicista della vita, che parla all’uomo dell’uomo. 
«Beh, Muti è il dio di Verdi, non puoi che condividerlo. Sì, è un compositore che mette a nudo le nostre passioni, le nostre sofferenze. Ecco, gli altri due temi nel Rigoletto sono il sacrificio e l’egoismo. Il Duca potrebbe essere un uomo di potere di oggi, un politico: crede in ciò che dice, ma non pensa alle conseguenze che le sue parole suscitano». 
I registi di cinema che tentano l’opera, da Sofia Coppola a Wim Wenders, sono timidi, convenzionali…
«Forse a volte si temono i fischi. Ho creato un’atmosfera gotica, un impianto minimalista, c’è un’evocazione della Sala dei Giganti di Palazzo te a Mantova e un omaggio a Novecento di Bertolucci, nel gobbo che vaga nella nebbia. Ho semplificato i caratteri per renderli più identificabili». 
Il protagonista fa il buffone e detesta il suo lavoro. 
«Si imbarazza, e l’ultima parola che pronuncia, la maledizione, gli ritorna come un boomerang. Si vergogna, avviene anche oggi con gli attori comici che nella vita sono persone cupe, tenebrose. Woody Allen sul set di Gigolò per caso, ripeteva sempre: se questa battuta non funziona, è la fine. Per un clown quando la gente non ride è la morte».