il Giornale, 6 ottobre 2018
Gli scrittori e il cibo
In fondo la vita è un lungo pasto, interrotto da qualche affanno di lavoro... L’ha detto meglio di tutti Valerio Magrelli, poeta e ottima forchetta: «La vita diventa un unico pranzo, pieno di cibi, di sapori, di bevande». Cibo e vita.
Nel senso che la cucina – speziata, agro, dolce, amara – mette in tavola le migliori metafore che la vita possa riservare (antipasto come l’infanzia, il primo è la giovinezza, il secondo – robusto, forte – l’età adulta, e poi siamo alla frutta, ma la vecchiaia può essere anche molto dolce) e che la scrittura possa inventare. Sia il cucinare sia il narrare sono fatti di sperimentazione, mix, accostamenti, tradizione e fantasia... Il romanzo è come un pranzo. Perché sia ottimo occorrono: pazienza, genio, dedizione, passione, invenzione ma soprattutto conoscenza – e buon uso – delle materie prime. In un caso sono gli ingredienti, nell’altro le parole. E in entrambi i casi, meglio non improvvisare.
L’arte letteraria è un cucinare. Ma è vero anche il contrario. E poi: è un caso (risposta: no) che la storia della letteratura, da Omero («i graticci carichi di formaggi» di Polifemo, le cosce di toro in sacrificio a Poseidone, le «bevanda di latte e miele»...) a James Joyce (uummmh... i rognoni di castrato alla griglia...), sia così piena di cibi? Alcune affinità: la ricetta come racconto, i piatti come personaggi con le loro caratteristiche, lo stare a tavola come lo stile di scrittura...
Che il cibo sia il più efficace strumento di conoscenza dell’uomo (la madeleine immersa nel tè di tiglio di Marcel Proust) e di un popolo (l’americanissima apple pie che scandisce le pagine di On the road di Jack Kerouac, oppure l’attacco alla pastasciutta italica dei Futuristi!), è una cosa che i grandi scrittori hanno sempre saputo. E lo hanno dimostrato servendoci pagine dai gusti più vari e straordinari. Esempi? Stiamo alla cucina italiana, la più ricca e raffinata. Antipasto: le sarde allo zolfo di Leonardo Sciascia, oppure i mille tipi di salumi della valle del Po raccontati da Mario Soldati nel suo epico reportage enogastronomico per la Rai, anni ’50 (che anticipò il fortunato filone teleculinario che oggi detta il menù ai palinsesti). Primi piatti: il sontuoso timballo del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (c’è anche la variante cinematografica) oppure l’inarrivabile risotto alla milanese di Carlo Emilio Gadda (ma leggetevi anche la sua pagina sul gorgonzola-croconsuelo ne La cognizione del dolore... resterete a bocca aperta). Secondi piatti: le frittate di D’Annunzio (che raccomandava nei bigliettini lasciati in cucina alla cuoca del Vittoriale), oppure il pollo al diavolo (non «alla diavola») di Palazzeschi. Dessert: il gelato di Goffredo Parise, gusto Sillabari...
Alla fine, leggendo le ricette afrodisiache di Isabel Allende, ripensando alla zuppa di pesce nel Moby Dick, sorseggiando un cocktail nella villa del Grande Gatsby con Fitzgerald, è proprio vero. Tutto ciò che ha a che fare con il cibo, ha a che vedere con la vita. E viceversa. E per il resto, buon appetito. O buona lettura. Che è la stessa cosa.