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Ha vinto il Pulitzer con una “biografia del cancro”, L’imperatore del male, tradotta in 20 lingue (in Italia è negli Oscar Mondadori). Oncologo, professore alla Columbia University, arrivò negli Stati Uniti a 18 anni alla ricerca di un “futuro futuristico”. Dopo gli studi a Stanford e a Oxford, si è laureato in medicina ad Harvard. Sostiene che le terapie geniche e la ricerca sul cancro si concentreranno sulla prevenzione, ma avverte che conoscere il futuro della nostra salute cambierà il modo di vivere.
Il suo libro successivo, Il gene, è al tempo stesso una storia della genetica e della sua famiglia, portatrice del gene della schizofrenia. Nel suo luminoso appartamento nel quartiere di Chelsea a sud-ovest di Manhattan Siddhartha Mukherjee (nato a Nuova Delhi, nel 1970) ci offre quattro volte il caffè – lui beve tè – nel giro di due ore.
Vedremo la clonazione di un essere umano?
«La scienza è in grado di farlo, quindi la domanda non è più se sia possibile, ma se sia debba fare. La mia risposta è no: gli esseri umani non devono essere clonati. Avrebbe un effetto destabilizzante più grande del successo tecnico. La genetica è sempre stata un territorio sacro, fuori dalla portata del denaro. Viviamo in una società divisa dal denaro, ma che questa disuguaglianza possa alterare anche la genetica va troppo oltre».
In una società immaginaria, senza disuguaglianze, se la clonazione avesse una finalità sanitaria, sarebbe accettabile?
«Può darsi. Ma è qualcosa di così lontano dalla nostra realtà che mi preoccupa che un’ipotesi del genere ci passi per il cervello».
Che cosa può fare la diagnosi genetica?
«Potremmo prevenire il rischio di malattie genetiche prima che si manifestino. Una società in cui, mentre siamo sani, ci diagnosticano di che cosa ci ammaleremo sembra una finzione di Orwell, ma possiamo scegliere tra sapere o no, e molte volte, sapendo, allungheremo la nostra vita. Non sempre. Anticipare la diagnosi può essere sia una soluzione medica che un problema sociale. Riusciamo a immaginare che cosa voglia dire essere marchiati fin da piccoli dal futuro incerto della nostra salute?».
Lei ha due figlie. Avrebbe un terzo figlio per salvarne una?
«Con un organo del neonato? No. Ho dedicato molto tempo a studiare i geni e penso che questo uso distrugga qualcosa di fondamentale di ciò che è un essere umano, che è sempre unico. La nuova scienza genetica, applicata all’embriologia e alla clonazione, fa vacillare i limiti di ciò che è umano».
Curare con le cellule dovrebbe essere una decisione personale? Internazionale?
«Da anni, la medicina affida la cura alle pillole. Le nuove pillole saranno cellule di ogni genere, ma solo per casi molto specifici e quando si potrà disporre di una tecnologia attualmente troppo costosa».
Com’è stata la sua infanzia a Nuova Delhi?
«I miei genitori hanno vissuto la transizione da una cultura antica a una nuova. Alla fine, però, mio padre ha voluto un funerale tradizionale. Sebbene si fosse trasferito da Calcutta a Nuova Delhi, portò sempre con sé la cultura bengalese. Mia madre è nata a Nuova Delhi. Quando si conobbero, era una donna moderna che aveva lasciato dietro di sé la tradizione. Era un’insegnante e guidava la macchina. Può sembrare poco, ma faceva un’enorme differenza. Mio padre lavorava per la Mitsubishi e gli piaceva viaggiare. Anche se, essendo bengalesi, finivamo sempre a casa di amici bengalesi dove si mangiavano le stesse cose. Tuttavia, ricordo che una volta, tornando da Londra, mia madre aveva comprato della stoffa e era andata dal sarto per fargli fare tre paia di pantaloni: mio padre la guardò come se fosse impazzita. Ho avuto un’infanzia felice, anche se ero timido e mi nascondeva dietro i libri. Vivevo chiuso nei miei pensieri. Non ero molto attivo, ma ero un grande sognatore».
Che cosa sognava?
«Un futuro futuristico. Credevo che venire negli Stati Uniti fosse indispensabile per realizzare il sogno. Dopo aver vinto il Pulitzer, ho avuto paura di viaggiare, perché mi è successo di perdere la cognizione di dove mi trovavo. Ora, quando presento un libro, so come controllare le mie emozioni».
Come?
«Corro tutti i giorni. Religiosamente».
È arrivato in America all’età di 18 anni. Ha mai avuto una sensazione, come studente o come medico, di razzismo?
«Sono indifferente al razzismo».
Questo può voler dire che non ha mai avuto questa sensazione...
«Come vittima, ben poco. Penso di averlo escluso dalle mie percezioni. Ricordo un episodio a Oxford: alcuni skinhead mi picchiarono, i miei amici mi difesero e finimmo al commissariato. Ma sono consapevole quando sono razzista con il mio modo di esprimermi o con il mio atteggiamento. A volte, in clinica, mi chiedo: “Sto parlando più lentamente perché do per scontato che questa persona di un’altra nazionalità farà più fatica a capirmi?”. La vita è piena di piccoli razzismi».
Perché non è voluto tornare a Nuova Delhi?
«Ho pensato che non fosse il posto migliore per la vita che volevo fare.
Ma ci vado. E ci porto le mie figlie».
Prima di permettergli di avere un cellulare, ha costretto le sue figlie a leggere due libri: "1984" e "La fattoria degli animali".
«Credo che i giovani debbano affrontare il pericolo con consapevolezza e rispetto, ma senza paura».
Che cosa è pericoloso, mentre pensiamo che sia un progresso?
«I social network. Il problema è che puoi trovare accordo e disaccordo. Ma è difficile trovarci il dubbio. La cosa più bella del discorso scientifico, lo scetticismo, è abbandonata. Chi dubita smette di pensare in termini di vero o falso e di fronte a una verità si chiede: quando è vero? Di quale contesto ha bisogno per esserlo? Queste domande sono la fonte della conoscenza. Tutti i cambiamenti importanti nella storia della medicina, della religione o della scienza si basano su una premessa: mettere in discussione ciò che si crede di sapere».
Che cosa accadrà se i social network dovessero accedere alle nostre informazioni genetiche?
«Tremo al pensiero che le informazioni genetiche finiscano nelle mani di una cattiva compagnia di assicurazioni».
Quanta genetica ha imparato
come padre?
«Tanta. Non consiglierei alle mie figlie di fare dei test per scoprire se sono portatrici del gene della schizofrenia che esiste nella mia famiglia, ma tra dieci anni la mia opinione potrebbe essere diversa. Vedremo quanto avremo bisogno di accettare il rischio di sapere troppo».
Lei appare tanto sulle riviste di moda che sulle pubblicazioni scientifiche. Il mondo scientifico come giudica la sua fama?
«La comunità scientifica è stata molto generosa. Mi danno credito per aver aperto la scatola nera di ciò che è un oncologo. Ritengono che sia importante far sapere come si sviluppano le nostre ricerche».
Quanto sarebbe disposto a rischiare in una terapia genetica per disattivare il gene della schizofrenia della sua famiglia?
«Anche se personalmente evito i rischi inutili, in ambito medico sono tendenzialmente favorevole al rischio. Mi chiedo se nella società odierna, in cui si denuncia tutto, non si rischi abbastanza nella ricerca per paura delle conseguenze giudiziarie, più che per quelle cliniche. La tecnologia consente di avanzare rischiando, ma credo che siamo una società molto meno preparata ad accettare i rischi. Oggi, con tecnologie più sviluppate, si avanza in modo più conservatore di qualche decina di anni fa. E per me, questa è la direzione sbagliata».
Esiste un gene della violenza, dell’egoismo?
«No. Ci sono geni che ci predispongono ad essere più sensibili ai traumi, ad essere più o meno malati e alle combinazioni di tutto ciò. Ma tra 20 anni vedremo criminali addurre delle giustificazioni genetiche al loro comportamento, e questo darà vita a una complessa problematica etica e legale. I geni interagiscono con le scelte personali. Ti predispongono. Ma non ti portano a fare nulla. Sei tu che decidi se fare o non fare una cosa».