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 2018  ottobre 05 Venerdì calendario

Carlo Carrà raccontato dal nipote

Racconta Luca Carrà che in casa del nonno (che lui non chiama mai «nonno», ma sempre e solo Carrà), non c’erano giocattoli. «Proprio niente, solo un mazzo di carte, che non riuscivo a usare perché nei primi anni Sessanta, quando passavo l’intera giornata da lui perché mi rifiutavo di andare all’asilo, avevo cinque anni e non sapevo ancora contare». 
Un giorno Luca esce mano nella mano con la nonna. Destinazione, il mercato. A una bancarella il suo sguardo incrocia un uccellino di latta: si blocca, insiste per averlo. Il no è immediato, la nonna però promette rapida, «chiediamo a Manzù di fartene uno di bronzo». Quell’uccellino non arriverà mai, ma c’è un regalo di consolazione da parte del nonno Carlo, un disegno con tanti uccelli. «Un disegno che è stato poi usato per un francobollo», sottolinea Luca. Che con delicatezza, scusa i nonni: «Avevano questa mentalità, questa idea che i soldi non dovessero essere sprecati per cose futili», spiega, «un retaggio dei tempi difficili, dei lunghi anni di vita modesta, Carrà aveva lasciato la casa paterna a dodici anni per lavorare come decoratore e all’inizio era poco più che un muratore, girava con i suoi attrezzi...». 
Pausa. Poi il nipote torna di nuovo a quei momenti, unici, di quando si accoccolava ai piedi del nonno. «Io ero capace di stare a lungo in silenzio, lui aveva una capacità straordinaria di isolarsi e concentrarsi solo sul lavoro, credo che non si accorgesse neppure di quello che gli succedeva intorno». Lo studio era in casa. «Carrà non ha mai avuto uno studio separato – rivela Luca —, ha sempre creato un suo angolo in sala, e ha avuto per tutta la vita un unico tavolo, che alla fine si era come fuso con la tavolozza, era un’unica immensa macchia di colore». Tre le case del grande maestro del Novecento. La prima in centro, in via Vivaio.
«Piccolissima, in puro stile bohémien, Medardo Rosso andava a trovarlo tutti i giorni, passava spesso anche Dino Campana, era un polo di attrazione per artisti e intellettuali». Poi lo spostamento più in periferia, in via Pascoli. «Nel ‘22 era nato mio padre Massimo, c’era bisogno di più spazio». Infine di nuovo in centro, in via Sandri, «a poca distanza dall’Accademia di Brera, dove gli avevano dato la cattedra per chiara fama». E si arriva al cavalletto. L’unico rimasto. «Nella casa di Forte dei Marmi ne aveva due, andarono persi quando fu occupata dai tedeschi, probabilmente bruciati per scaldarsi. Fu un dolore, non volle più comprarne, iniziò a dipingere appoggiando le tele ai muri, allo schienale delle sedie, sui muretti». Forte dei Marmi fu acquistata con i proventi della Biennale. «Delle Biennali – puntualizza subito Luca —, con quella del ‘26 fu acquistato il terreno, gli introiti dell’edizione successiva servirono per costruirla e quella del ‘30 permise un ampliamento». Le estati passavano in Versilia. «Tutti i pomeriggi, in giardino, c’era il rito delle bocce. Carrà giocava di frequente con l’amico Roberto Longhi e con Francesco Messina. Il critico d’arte bocciava dall’alto, lo scultore aveva un tiro fortissimo, a correre, come Carrà». All’ora dell’aperitivo, all’epoca detta «ora del rabarbaro», si trasferivano al Caffè Roma, altro cenacolo intellettuale. «Li raggiungevano Montale, Alberto Savinio, era un appuntamento fisso per chiunque fosse di passaggio da Forte dei Marmi». 
Di Carrà, oggi, non rimangono solo le opere, ma anche archivio e biblioteca, di cui è curatore Luca Carrà. «È stato mio padre, quando ancora il nonno era in vita, a cominciare a organizzare l’archivio, un lavoro ciclopico voluto per arrivare a creare un catalogo generale, a tutela dei collezionisti. L’archivio è oggi completamente digitalizzato, e consigliamo sempre, prima di un acquisto importante, di consultarci: in circolazione ci sono diversi timbri, miei e di mio padre, falsi, e perfino expertise non autentiche».