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 2018  ottobre 04 Giovedì calendario

Biografia di Jorge Valdano

Jorge Valdano (Jorge Alberto Valdano Castellano), nato a Las Parejas (Santa Fe, Argentina) il 4 ottobre 1955 (63 anni). Dirigente sportivo. Allenatore di calcio. Scrittore. Ex calciatore, di ruolo attaccante. Storico volto del Real Madrid, di cui è stato dapprima calciatore (1984-1987), quindi allenatore (1994-1996), infine dirigente (2000-2004, 2009-2011). Giocatore della Nazionale argentina dal 1975 al 1986, conquistò al fianco di Maradona il Campionato mondiale del 1986. «Quando nel calcio si parla di hombre vertical viene in mente prima di tutti César Luis Menotti. Lo stesso soprannome diedero poi a Héctor Cúper. Il ceppo italiano è nella triade Zoff-Scirea-Riva. Ma l’uomo più verticale di tutti nel calcio, l’ultimo rimasto, si chiama Jorge Valdano, che infatti adesso il calcio guarda da lontano. Come un filosofo. Da filosofo. […] Sul calcio Valdano riflette. Il suo pensiero è analisi, ricerca, indagine. Un giorno […] gli domandano a cosa serva il bel calcio, se si può vincere anche giocando male. Valdano lo sa, a cosa serve giocar bene. […]"Quando gli chiedevano a cosa servisse la poesia, Borges rispondeva facendo a sua volta delle domande: a cosa serve l’alba? A cosa servono le carezze? A cosa serve l’odore del caffè? Per il piacere, per l’emozione, per vivere"» (Angelo Carotenuto) • «Per me e per la mia generazione il calcio senza parola era incompleto. Vivevo in un piccolo borgo. La fascinazione veniva dagli articoli della rivista El Gráfico e dalle partite alla radio. La prima in tv l’ho vista a 15 anni. Mondiali ’70. Giocava il Brasile. Fu la conferma dell’universo meraviglioso cresciuto nelle mie fantasie. Ma avevo idealizzato un mondo con una squadra che era un’eccezione, non una regola». Iniziò a giocare nei Newell’s Old Boys, prima nelle formazioni giovanili e poi in prima squadra, «a Rosario, città implacabile con i giocatori scarsi. In uno dei primi allenamenti, diedi la palla al Mono Obberti, vecchio idolo del Newell’s, oltre che mio personale, ma il passaggio non fu particolarmente preciso. Il Mono non fece il minimo sforzo per raggiungere la palla, mi guardò come se mi stesse facendo un favore, e disse: “Ragazzino, sul piede! Altrimenti trovati un altro lavoro”». Nel 1975, «il grande salto in Europa, destinazione Alavés, Segunda División spagnola. Dopo quattro anni il passaggio al Real Saragozza, squadra di centro classifica della Liga, nella quale Valdano riesce progressivamente a mettersi in luce, segnando una cinquantina di reti tra il 1979 e il 1984. 183 centimetri, buon piede e senso tattico, Jorge è un attaccante esterno che ama giocare per la squadra: ripiega a supporto dei centrocampisti, si accentra per suggerire giocate in velocità, serve palloni per le verticalizzazioni delle punte. Ha i connotati del leader silenzioso, come testimonia l’ormai famoso episodio che lo vede protagonista col divino Cruijff, polemico oltremisura con l’arbitro per un fallo di poca importanza durante una partita in cui i due si trovano di fronte da avversari. Cruijff insiste nelle proteste, l’arbitro, in soggezione dinanzi al carisma prorompente del profeta del gol, si dilunga in mille, inutili spiegazioni. Valdano, innervosito da quell’atteggiamento gonfiato dalla presunzione, si rivolge all’olandese: “Senti, perché non ti tieni quel pallone e ce ne dai un altro, almeno possiamo giocare anche noi?”. Cruijff ha un attimo si sorpresa: non è abituato a essere contraddetto. Forse per umiliarlo, probabilmente perché davvero non si è mai curato di conoscerlo, gli chiede: “E tu come ti chiami?”. “Jorge Valdano”. “E quanti anni hai?”. “Ventuno”. “Ragazzino, a ventuno anni a Cruijff si dà del lei”. […] Il Real Madrid mette gli occhi su di lui, e, nella stagione 1984-85, alle soglie dei trent’anni, lo porta al Bernabéu. È il momento giusto per Valdano, maturato gradualmente, progredito senza strappi in un percorso al vertice nel quale ha costruito, passo dopo passo, personalità ed esperienza, supportate al meglio da un’intelligenza non comune. Negli anni di Madrid riempie la sua teca di allori: due campionati spagnoli, due Coppe Uefa e il mondiale in Messico. Gioca con gente del calibro di Butragueño, Hugo Sánchez, Chendo, Camacho, Míchel: il meglio del Real degli anni Ottanta» (Paolo Valenti). «Ho lavorato tantissimo con l’entusiasmo di chi ha avuto la fortuna di fare il giocatore di calcio. […] Il mio piede era il destro, alcuni miei allenatori si ostinavano a farmi imparare a calciare con il sinistro. Nulla da fare. Allora cosa ho fatto? Ho parlato fisicamente con la mia gamba destra, chiedendole di insegnare alla sua "collega" come si fa. Nella testa rielaboravo i movimenti per colpire di destro, immaginandoli con il sinistro. Non ci sono mai riuscito come avrei voluto. Ma ancora oggi trovo commentatori, giornalisti, anche ex colleghi allenatori che mi regalano seri attestati di stima come "Jorge Valdano, grandissima ala sinistra, mancino puro". Cosa volete che vi dica, il calcio è pura fantasia. Evviva il fútbol» (ad Alessandro Grasso Peroni). «Calciatore dal destro micidiale soprannominato ala sinistra: tutta colpa del numero che portava cucito sulle spalle, l’11» (Gianni Valentino). Apice della sua carriera il trionfo ai mondiali messicani del 1986, durante i quali segnò ben quattro reti, tra cui quella del temporaneo 2-0 nella finale del 29 giugno contro la Germania Ovest (poi conclusasi 3-2). «Avevo sognato tante volte fin da bambino quel momento che quando segnai il gol alla Germania nella finale della Coppa del mondo pensai “Oh cavolo, vedrai che adesso arriva mia madre e mi sveglia!”». Una settimana prima, aveva assistito a brevissima distanza a uno dei gol più discussi della storia del calcio, il primo dei due segnati da Maradona nel quarto di finale Argentina-Inghilterra (poi finito 2-1). «Io non sono innocente. La mano de Dios, espressione che aggiunse ulteriore ingegno alla colossale furbata di Maradona contro l’Inghilterra nel mondiale in Messico del 1986, è un simbolo degli eufemismi che utilizziamo per mascherare condotte difficili da difendere su un piano etico. La definizione fu geniale almeno quanto il gol, perché non faceva che sottolineare come l’azione fosse un atto di giustizia. Per un argentino, la violazione della regola rappresentava la giusta punizione che l’Inghilterra meritava. Il gol ci mostrava una contraddizione etica, perché da un lato violava la regola, ma dall’altro ci metteva davanti un concetto etico: la giustizia. Le ferite della guerra delle Malvine erano ancora troppo fresche, e quello del calcio era il territorio perfetto per compensare l’umiliazione patriottica subita. Ma cosa sarebbe accaduto se Diego avesse ammesso l’irregolarità con l’arbitro? Possiamo immaginare ogni tipo di conseguenze. L’Argentina più oltranzista non glielo avrebbe mai perdonato. Avremmo messo in pericolo la selvaggia allegria di una vittoria sull’Inghilterra e, più tardi, quella di essere campioni del mondo. Addirittura Maradona sarebbe meno idolo rispetto a quanto è oggi. O, magari, un gesto di tale entità avrebbe contribuito a rendere un Paese migliore, perché la forza simbolica di episodi così potenti può arrivare a modificare una società. Lo dico […] considerandomi complice di quel celebre avvenimento, perché, se non sono stato il primo, sicuramente sono stato il secondo ad abbracciare Maradona dopo il gol». «Dopo quel mondiale giocò solo pochi mesi, esattamente fino al marzo 1987, quando, mentre vestiva la prestigiosa camiseta blanca del Real Madrid, dovette appendere le scarpe al fatidico chiodo a soli 31 anni e mezzo a causa di una debilitante epatite. Risolti i problemi di salute, il ritorno nel mondo del calcio è avvenuto attraverso il classico passaggio ad allenatore, in questo caso con il Deportivo Tenerife nel 1992. L’impatto fu all’altezza della sua fama di persona competente, equilibrata e di profondo conoscitore del calcio e di tutti i suoi aspetti “collaterali”. “El poeta” (soprannome non certo casuale) rileva il Tenerife e compie l’impresa di salvare il non certo trascendentale team delle Baleari togliendosi la soddisfazione di battere nell’ultima partita di campionato proprio il Real Madrid, facendo perdere ai “bianchi” un titolo che pareva già assicurato. Nella stagione successiva arriva addirittura un piazzamento che qualifica il piccolo team di Tenerife per la Coppa Uefa. Nel 1994, dopo cotanti successi, arriva la chiamata del “suo” Real Madrid. Vince immediatamente la Liga facendo debuttare l’ancora minorenne Raúl González Blanco, che diventerà uno dei giocatori che hanno fatto la storia recente del prestigioso club madrileno. La luna di miele dura però poco, e a metà della stagione successiva arriva per Valdano una improvvisa (e anche un po’ frettolosa) destituzione. La successiva avventura sulla panchina del Valencia è ancora più fallimentare; un 10° posto nella Liga, e altro licenziamento. A questo punto Valdano decide di cambiare obiettivo; non più la cancha ma la scrivania, dove da subito dimostra competenza e lungimiranza. La scalata, sempre all’interno del “suo” club, il Real Madrid, culmina con la decisione di Florentino Pérez di dargli la carica di direttore generale. […] Meno di due anni dopo, però, arriverà uno dei momenti più controversi nella carriera di Valdano: il rapporto impossibile con Mourinho, nel frattempo diventato allenatore delle “merengues”, vede Florentino Pérez prendere una decisione inattesa e per molti, all’interno del club, sbagliata e impopolare; dare cioè al controverso allenatore portoghese pieni poteri. […] Ma, prima di questo licenziamento avvenuto nel maggio del 2011, Valdano ha dovuto subire le ire del focoso coach portoghese, che prima lo ha di fatto esautorato nelle trattative di mercato arrivando perfino ad impedire a Valdano di seguire le trasferte del club o di presentarsi nella sede degli allenamenti del Real a Valdebebas, il tutto con la passività totale di Perez, che invece aveva avuto in Valdano il perfetto parafulmine in tante stagioni al Real Madrid. Valdano, da autentico signore qual è, esce dal club in punta di piedi senza dichiarazioni polemiche o rancori e si butta ancor più a capofitto nella cosa che probabilmente gli riesce ancora meglio che giocare a calcio, allenare o, di fatto, gestire un club: scrivere libri. I libri di Jorge Valdano sono autentici trattati di sport, società e politica, con tutti gli aspetti del calcio trattati con una competenza ed una sensibilità assolutamente rari» (Remo Gandolfi). «Com’è stato il percorso dal pallone alla scrittura? Qual è la sua educazione? “Un’educazione disordinata. Senza maestri. Una lettura tirava l’altra. Quando a 19 anni arrivai all’Alavés, nel mio hotel a Vitoria viveva un uomo argentino molto colto. Mi dava consigli. Io non ricordo il suo nome, lui non sa di avermi messo in cammino. Ho perso mio padre a 4 anni, in casa non c’era un solo libro. Per tutta l’infanzia ho letto fumetti. Eravamo una famiglia della classe media, senza particolari preoccupazioni per le piccole spese. L’Editorial Salvat lanciò una collana di titoli, comprai Il ritratto di Dorian Gray e mi convertii. Quando incontro vecchi compagni, tutti mi ricordano con un libro in mano. Era strano che un calciatore leggesse. Gli intellettuali disprezzavano il calcio. Borges non ha fatto altro che smarcarsi dal pallone. La famiglia di Roberto Santoro, uno scrittore assassinato dalla dittatura, mi regalò Literatura de la pelota, un libro che mostra come nel calcio ci siano poesia, tango, narrativa. Cominciai a leggere Triunfo, la rivista di Montalbán, scoprendo che il pallone è metafora e rappresentazione del potere. Giocare iniziò a essere diverso. Da quel momento non fu più un’espressione animalesca: vai in campo e diverti il pubblico. Cominciai a sentirmi rappresentante di qualcosa di più profondo, di politico”. Le piace essere considerato un filosofo del calcio? “È come per il tiki-taka: un termine nato per disprezzare i passaggi e poi diventato indicatore di eccellenza. Hanno cercato di insultarmi chiamandomi poeta, intellettuale, cattedratico, filosofo. La gente ha finito per credere che io lo sia. Del resto, ognuno di noi porta la sua etichetta. Io volevo solo allargare il paesaggio”. Non le viene più nostalgia della panchina? “Mi sono allontanato dalla professione. Oggi per far bene l’allenatore devi essere ossessionato dal calcio. Io quell’ossessione non ce l’ho più. Lo amo, e non solo il gioco: amo il fenomeno sociale, culturale. Ma sono un disperso dal calcio. Mi piace troppo leggere, andare al cinema, stare con gli amici. Il calcio invece ti prende la vita. È bello che esista gente disposta a dargliela. Non io. Non più”» (Carotenuto). Tra i suoi libri pubblicati in Italia, Il sogno di futbolandia (Mondadori 2004) e Le undici virtù del leader (Isbn 2014) • Nel 2014 Valdano ha esordito come sceneggiatore, per il film documentario Messi. Storia di un campione di Álex de la Iglesia • Sposato, due figli • «Jorge Valdano ha una faccia da attore. È bello, intenso, beffardo, e ciò che dice e scrive sembra un’emanazione diretta dei suoi lineamenti. Valdano è probabilmente l’unico calciatore, in tutta la storia dello sport più popolare del pianeta, che sia mai stato in grado di guadagnarsi una credibilità come scrittore. […] Credibilità, speranza, passione, stile, parola, curiosità, umiltà, talento, spogliatoio, semplicità, successo. Queste sono le parole chiave intorno a cui l’ex attaccante argentino […] sviluppa il suo pensiero. […] Valdano non si stanca mai di richiamare il primato dello stile e del piacere sul pragmatismo – per farla semplice, e usare un gergo calcistico, del gioco sul risultato, o ancor meglio del gioco in funzione del risultato –, eppure il sospetto è che i due piani, nelle sue teorie, finiscano per sovrapporsi molto spesso» (Giovanni Dozzini). «Quel fondo di fascismo che si annida dietro la filosofia del risultato è tipico di gente che divide il mondo in dominatori e dominati, in ricchi e poveri, in bianchi e neri, in vincitori e vinti» • Numerosi i personaggi oggetto dei suoi giudizi, spesso sferzanti: tra gli altri, David Beckham («È due persone in una: è una persona quando gioca e un’altra nella vita. Fuori dal campo, come certi uccelli della Patagonia, fa una cagata ad ogni passo. Ma durante i 90 minuti mostra doti di concentrazione, buona capacità di partecipazione, abnegazione, solidarietà»), Fabio Capello («Credo che, se lo abbandonassimo per un anno in una caverna piena di serpenti, al ritorno lo troveremmo sano e salvo») e, naturalmente, José Mourinho («Se Guardiola è Mozart, Mourinho è Salieri: sarebbe un gran musicista, se non esistesse Mozart. Si tratta di un vincente, che ama molto di più il risultato del gioco. Insegue la vittoria in modo ossessivo ed esercita una leadership dominante che richiede un’autentica esibizione di potere. Possiede un grande fascino mediatico, che quando vince lo trasforma in un eroe, e quando perde in una caricatura»). Grandi, invece, la stima e la gratitudine manifestate per quello che considera il suo autentico maestro, César Luis Menotti: «Tutti gli allenatori che ho avuto prima delle partite mi hanno sempre detto: Jorge, tira fuori i coglioni. Invece, la prima volta che lo incontrai, El Flaco mi disse: Jorge, tira fuori i tuoi sogni» • «Se noi calciatori avessimo immaginato quanto è duro l’addio, avremmo fatto i pittori o gli scultori, per non smettere mai». «Ogni volta che respiro l’odore dell’erba mi ritorna addosso l’infanzia». «Vorrei che coloro che mi hanno insegnato a sognare sapessero che io continuo a farlo. E che non ho intenzione di smettere».