Deve essere stato emozionante avere la responsabilità di mettere mano a un materiale così prezioso?
«Sì, e per molte ragioni. La prima è che ho sentito la mancanza di mio padre. Lui mi ha insegnato tutto, mi mancavano i suoi giudizi, mi mancava averlo intorno. Poi perché John e George non c’erano e n on potevo sfruttare la loro sensibilità, ma in compenso avevo due grandi boss come Paul e Ringo, inevitabilmente coinvolti nel progetto: è il loro disco. E infine pensavo ai tanti che hanno un rapporto così passionale con questo album. Dovevo essere sicuro di fare la cosa giusta, dovevo rispettare tutti in ogni singola scelta. Ma ovviamente è stato anche un piacere impagabile».
Ha scoperto qualcosa di nuovo che non conosceva?
«Ho avuto il raro privilegio di ascoltare già con mio padre tutte le registrazioni dei Beatles, soprattutto mentre curava il folle progetto Love, dove gli fu concesso di riprendere e mescolare i nastri originali. Ma in questo caso la vera sorpresa è stata riascoltare i cosiddetti Esher demos».
... I nastri a quattro tracce che i Beatles realizzarono a casa di George al ritorno dall’India in cui c’è quasi tutto il “White album” in versione acustica. Praticamente il Santo Graal della musica pop, non crede?
«Era uscito qualcosa nei bootleg, e altro lo avevo ascoltato mentre lavoravamo al film dedicato a George, ma riascoltarli tutti pensando quasi a un’istantanea del processo creativo che portò alla realizzazione del disco è stato stupefacente».
Non crede che i demo, a volte completamente diversi dalla versioni definitive, potrebbero essere un disco a sé stante?
«È quello che mi ha detto Paul quando abbiamo riascoltato insieme i nastri: diceva che suonavano incredibilmente attuali. Ciò che dovevamo garantire era che la qualità finale fosse buona, ma lasciando le cose com’erano. Viviamo in un mondo di musica in cui tutto sembra perfetto, come passato per una sorta di chirurgia plastica. L’Instagram generation rischia di sembrare tutta eguale. E invece c’è tanta bellezza e umanità in questi semplici demo con tutti i loro difetti».
La magia del suono che suo padre riuscì a catturare in quei dischi è ancora intatta, com’è possibile?
«Papà era un uomo meraviglioso, ma credo che molto derivasse dal suono che i Beatles producevano per conto loro, come band. Gli Esher tapes non hanno alcun trattamento, eppure sono ottimi. Mi è successo di lavorare con artisti come Steve Winwood e Joe Cocker, beh, semplicemente non potevano suonare male. Puoi dar loro qualunque microfono, ma alcuni artisti suonano comunque bene. È esattamente quello mio padre diceva dei Beatles».
Quando li ha conosciuti personalmente?
«Paul è quello che conosco da più tempo, papà lavorava con lui quando ero piccolo. Per me Paul è stato sempre un grande sostegno, e così Ringo. Ho conosciuto presto anche George, ricordo molto bene la prima volta. I miei mi avevano portato allo stadio di Wembley a vedere un concerto di Simon & Garfunkel. Andai a fare pipì in un orinatoio. Ero molto imbarazzato. Un signore accanto a me disse: “hallo!” e uscì. Quando tornai al mio posto trovai quel signore accanto a loro. Mio padre disse, hey George questo è mio figlio Giles, e lui: oh sì, l’ho appena conosciuto in bagno. Con John il rapporto fu meno intenso: negli anni 70 se ne stava per conto suo. Ma sono nato nel suo stesso giorno. Quando successe mio padre stava lavorando con lui e gli disse: lo sai, mio figlio è nato nel giorno del tuo compleanno, e lui rispose: bene adesso sai che stronzo potrà diventare».
Quali canzoni preferisce del Doppio bianco?
«Cambiano col tempo, prima amavo molto Sexy Sadie e Cry baby cry, oggi forse Blackbird. Allora non immaginavo fosse dedicata a una donna nera in lotta per i diritti civili. E poi forse Happiness is a warm gun,sono molto felice del nuovo mix, e forse anche Dear Prudence e Mother Nature’s son. Comunque è l’album più coraggioso che abbiano fatto. Mi dica invece lei quali preferisce...».
Al suo elenco si potrebbe aggiungere “Revolution”... Ma nell’edizione extra c’è anche una prima versione di “Let it be”. Perché l’ha lasciata nella raccolta, pur non facendo parte del White album?
«Per questo, c’è anche Across the universe, sempre nell’idea di dare una rappresentazione di quel momento. Ovviamente non è la Let it be che conosciamo, ma le prime tracce erano lì, come per Hey Jude e Lady Madonna. Tutte versioni embrionali registrate durante la lavorazione del disco. Volevo restituire un’istantanea, la più completa possibile, di quel preciso momento, e quindi di quell’immagine fanno parte anche le prime versioni di Let it be e Across the universe. In realtà ascoltando questi materiali si ha la sensazione del tappo di una bottiglia di champagne che salta, per la quantità di idee prodotte in un lasso di tempo decisamente ristretto».
Nella sua ricerca, non ha trovato una versione di “Hey Jude” con la variante “Hey Giles”?
«Confesso di averla cercata, ma sfortunatamente non esiste, devo chiedere a Paul di registrarne una solo per me».