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 2018  ottobre 03 Mercoledì calendario

Il Dottor House sudcoreano

EUL Un anno fa un soldato nordcoreano correva disperato per superare il 38° Parallelo e rifugiarsi al Sud. Inseguito dai suoi camerati fu ferito con cinque colpi di mitra: fori d’entrata tutti da dietro, alla schiena, fori d’uscita davanti, sul torace, l’addome, toccato anche un polmone. Quando lo hanno caricato sull’elicottero-ambulanza sembrava spacciato. Lo ha salvato un chirurgo sudcoreano nell’ospedale universitario Ajou di Suwon, una quarantina di chilometri da Seul. Ora quel medico racconta la storia al Corriere.
Il dottor John Cook-Jong Lee non è un medico comune e neppure un uomo facile. Si definisce subito un chirurgo «di prima linea»: nel suo studio, tra i testi scientifici e una Bibbia, spiccano riviste militari dei Marines e della Marina da guerra, alla parete tiene incorniciato un attestato della Casa Bianca che gli riconosce competenza per intervenire anche sul presidente degli Stati Uniti in caso di emergenza: lo ha ricevuto dopo la visita di Obama nel 2009.
Il dottor Lee opera in un ospedale costruito con criteri americani, dove ogni anno arrivano centinaia di soldati statunitensi e sudcoreani feriti in addestramento, in quei giochi di guerra che al momento sono stati sospesi in attesa della denuclearizzazione promessa (a modo suo) da Kim Jong-un. «Ora la situazione è calma ma non sono ottimista, i nordcoreani fanno molto teatro e trattano i nostri negoziatori da dilettanti», dice il chirurgo.
Lee, anche se è professore universitario ed è diventato una celebrità internazionale, guida personalmente un team di pronto intervento volante: arriva in elicottero sul luogo dell’incidente per evacuare i feriti. «Ho 500 ore di volo, sui Black Hawk americani e sugli Agusta italiani, macchine bellissime, lo so che si chiamano AgustaWestland, ma per noi sono solo Agusta, un nome che suona romantico e mi ricorda anche una dottoressa italiana che ho conosciuto a Londra, Sara... Nel mio lavoro la rapidità dell’azione è essenziale, il soldato colpito sul 38° Parallelo non riusciva a respirare e sull’elicottero gli è stato infilato un ago da drenaggio intercostale, una procedura semplice a leggerla sui libri, ma quando si deve fare in volo le cose non sono così facili». Mi mostra una serie di diapositive da Pulp Fiction, tutte rosso sangue, comprese quelle dei vermi parassiti da 20 centimetri che ha trovato nell’intestino perforato del soldato, dovuti alle razioni avariate dell’esercito nordcoreano.
Dopo l’intervento, quando si è risvegliato in terapia intensiva, il ragazzo temeva di essere stato catturato dai suoi. «Per convincerlo che era al Sud, salvo, gli ho fatto sentire il nostro K-pop alla radio e vedere un paio di film americani, uno comico con Jim Carrey. Aveva ancora gli incubi, gridava e non si fidava e allora ho appeso una bandiera sudcoreana davanti al suo letto, ha capito che al Nord non lo avrebbero fatto mai». Come sta ora il fuggiasco? «Bene, so che è sereno e lavora, è forte, credo che i nordcoreani siano più temprati di noi, perché per secoli si sono battuti con i manciuriani alla frontiera».
Lee sembra un Doctor House d’Oriente: sempre in servizio, sempre pronto a sfidare le convenzioni, in perenne conflitto con il potere. «Ho molti avversari e nemici nel sistema sanitario e anche in questo ospedale; in Sud Corea si privilegia la chirurgia plastica, perché si fanno un sacco di soldi, poi l’oncologia perché tutti temono il cancro... la chirurgia traumatologica è trascurata, riceve pochi fondi, un buco nero. Trovo che sia un tradimento, perché molti dei traumi succedono in fabbrica e nelle campagne, riguardano i lavoratori che mandano avanti il Paese».
Nonostante fosse studente al terzo anno di medicina, quando lo chiamarono per il servizio militare obbligatorio negli anni 80 Lee fu arruolato da marinaio semplice. Lee è rimasto un militare nell’animo: lo hanno promosso Tenente Comandante dopo un’altra azione coraggiosa, quando nel 2011 volò nel Golfo di Aden a soccorrere un capitano di mercantile sudcoreano crivellato di colpi dai pirati somali. Mostra una foto in bianco e nero di un giovane soldato: «Mio padre, che durante la guerra di Corea 1950-1953 combattè contro gli invasori nordisti. Fianco a fianco con i ragazzi venuti dagli Stati Uniti, sparava pallottole americane con fucile americano, si sfamava con le loro razioni. Dobbiamo la nostra libertà all’America».