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 2018  ottobre 03 Mercoledì calendario

“Il Tabucchi inedito che tutti rifiutarono”

“Non ci possiamo fidare di tutto quello che dicono gli scrittori”. E per fortuna, verrebbe da dire. Il prossimo 25 ottobre, a sei anni e mezzo da una scomparsa che ha lasciato orfana la letteratura internazionale, usciranno due volumi de I Meridiani Mondadori con le opere complete di Antonio Tabucchi. A curarli sono stati Paolo Mauri e Thea Rimini, “tabucchiani doc. Sarà molto bello, ne sono felice”, racconta da Lisbona, con il filtro dell’emozione, Maria José de Lancastre, traduttrice, docente di Letteratura portoghese a Pisa e moglie, anzi compagna di vita dello scrittore. Sua la coraggiosa decisione, cinque anni fa, di donare l’intero archivio del marito alla Bibliothèque Nationale de France.
Signora Maria José, ha collaborato all’edizione dei Meridiani?
Hanno fatto praticamente tutto i due bravissimi curatori. Io ho dato una mano a Mauri sulla cronologia, perché avevo dei dati in più rispetto ai suoi.
Che cosa troveremo nei due volumi?
Tutte le opere che i lettori già conoscono, cui però è stata fatta un’attenta revisione. Poi, attraverso l’apparato critico e la cronologia, viene fuori la rete di amicizie e sintonie che Antonio aveva con altri scrittori di tutto il mondo, ci sono passi di scambi epistolari. Per ogni sua opera pubblicata all’estero, uscivano recensioni e critiche ovunque. Sarà interessante capire che aveva una vita molto ricca, interessi anche completamente diversi dalla letteratura. E poi c’è un inedito.
Quale?
Lettere a Capitano Nemo.
Il romanzo del 1977 mai pubblicato, anche perché “respinto” – all’epoca – da tutte le case editrici?
Proprio quello. Antonio ne parlò in due occasioni. Nell’87, quando pubblicò I volatili del Beato Angelico, scrisse la ‘storia di una storia che non c’è’: raccontò di aver disperso il romanzo, affidando al vento quei fogli in una notte sulla costa atlantica. Nel ’91, quando pubblicò L’angelo nero, riparlò dell’opera per dire che dal cassetto erano sbucati tre o quattro fogli e che, partendo da quelli, aveva poi composto il racconto Capodanno, l’ultimo della raccolta. Non ci possiamo fidare di quanto affermano gli scrittori: l’aveva conservato tutto, ma in modo confusionario.
Dal ’77 nessun editore lo volle. Mondadori sostenne che, pubblicandolo, Tabucchi avrebbe corso il rischio di essere etichettato “scrittore per pochi”. Einaudi parlò di “suture faticose”. E così gli altri. Poi, nell’84, Il Saggiatore preparò il contratto ma suo marito non lo firmò. Perché mai?
Il tempo era passato e lui dalla Toscana, dov’è ambientato il romanzo, aveva allargato gli orizzonti. Faceva un altro tipo di letteratura e non si rivedeva più in quell’opera.
E allora perché pubblicarlo adesso?
Perché ci sono delle parti inedite molto belle e il tutto è avvincente.
Ma qual è la storia?
Il protagonista è un adolescente molto solo, Duccio, che ha traumi psichici infantili e vicende familiari complicate: il padre, repubblichino di Salò, è stato ucciso nei sotterranei della villa in cui abitano e Duccio lo viene a sapere dalle conversazioni di una domestica; lo zio omosessuale lo porta con sé sulla spiaggia. Come in ogni opera di Antonio ci sono l’estate, il caldo, le cicale, i sensi che si risvegliano. Anche se qui è solo un ricordo: la storia è ambientata la notte di Capodanno, durante la quale il ragazzo medita una dura vendetta.
Duccio scrive lettere al Capitano Nemo. Il loro è un rapporto d’amore. In quel periodo stavate traducendo insieme Fernando Pessoa. Ci sono dei richiami?
Credo di sì.
Rispondendo al rifiuto di Mondadori, suo marito scrisse: “Io non faccio il romanziere, scrivo romanzi”. Che differenza c’era?
Antonio sfuggiva dallo statuto del romanziere, che gli editori invece volevano conservare, ogni libro che scriveva era un’avventura. Tempo dopo abbandonò anche il termine ‘romanzo’: Pereira era una ‘testimonianza’, Gli ultimi tre giorni di Pessoa un ‘delirio’.
Tante etichette, nessuna etichetta.
Era un uomo molto libero. Non aveva un superego che lo condizionava nella scrittura. Nei primi tempi, da giovane, aveva dovuto accettare alcune regole; poi se n’era liberato e rivendicava il diritto di fare ciò che voleva. Quando gli andava di scrivere testi sull’impegno e sugli zingari lo faceva, ma diceva anche: ‘Se un giorno avrò voglia di scrivere qualcosa sulle carote del mio giardino sarò libero di farlo’.
Lei ha ricordato più volte che suo marito aveva il senso dell’ingiustizia. Cosa penserebbe oggi dell’Italia in cui stiamo vivendo?
Forse non aveva immaginato che ci saremmo spinti fino a tanto. Mi ricordo la serata della vittoria di Berlusconi, eravamo a casa di amici. Fu molto strano: Antonio rimase impietrito, come colpito dall’abisso che vedeva aprirsi davanti al Paese. Gli amici cercavano di tirargli su il morale, ma lui aveva intuito che qualcosa di grave stava per accadere.
La grande letteratura riesce a guardare oltre. Crede che quello che stiamo vivendo sia un periodo proficuo per gli scrittori?
La letteratura ha una forza che viene sempre fuori, in qualche modo. Ma sono tanti quelli che scrivono e pochi quelli che rimangono.