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 2018  ottobre 03 Mercoledì calendario

Come Fitzgerald scrisse il suo romanzo

Il 1929 era vicino e Scott lavorava al nuovo romanzo. Un romanzo psichiatrico che uscirà nel 1934, e che forse mai avrebbe scritto se Zelda non si fosse ammalata di nervi. Modesto come sempre, Fitzgerald confidò al suo editor: Il romanzo procede bene. Credo che sia assolutamente fantastico. L’avrebbe intitolato Tenera è la notte, e per condurlo a termine avrebbe impiegato otto anni.
Otto anni difficili, pieni di ansie e ambasce: per la salute di Zelda e per le finanze sempre più scarse. Ma questo non modificherà le abitudini di Scott. Continuava a scialacquare, a fare debiti, che con gli anticipi non era più in grado di saldare. La mania, perché di mania si trattava, di cambiare casa con tanta frequente leggerezza, comportava sempre nuove spese. E poi c’erano i viaggi in Europa, e in quella Francia che la prima volta aveva trovato insopportabile, ma di cui poi s’era innamorato, anche se il luogo che nel Vecchio Continente più gli era piaciuto e dove più volentieri tornasse era Oxford.
Nel 1928 lo scrittore aveva trentaquattro anni, ma ne dimostrava molti di più. La vita sregolata, ai limiti della dissipazione, che aveva condotto con Zelda, li aveva segnati.
Troppo alcool e, per lei, anche troppo fumo: la sigaretta perennemente accesa e la voce arrocchita dalla nicotina. Si sentivano, ed erano, sempre più estranei. Stavano insieme forse perché, dopo tanti anni di tempestosa convivenza, non riuscivano a stare lontani. Nessun dialogo fra loro. Solo lunghi, plumbei silenzi e interminabili, esasperanti liti. L’idillio era davvero finito. Della grande, fantastica love-story restavano i ricordi e i rimpianti, avvelenati dalle recriminazioni, dai mai sopiti rancori, dai dispetti quotidiani. Nulla sembrava più unirli, se non l’affetto per la figlia ancora bambina e testimone di quell’esistenza impossibile.
Lui lavorava a fatica, e questo lo innervosiva, incupendogli l’umore. Lei mortalmente si annoiava e questo la rendeva isterica. Se almeno avesse avuto qualcosa da fare, una distrazione, un hobby. A scuola, a Montgomery, aveva studiato pittura e danza. Perché non riprendere in mano la tavolozza e pennelli o indossare il tutù e dedicare qualche ora a Tersicore? Scelse la Musa e, dopo dodici anni, ricominciò a ballare. E non con una maestra qualunque: con Ljubov Jegorova, direttrice della scuola parigina del Diaghilev Ballet.
Un’allieva puntuale e perfetta. E così assidua che Scott e Scottie si sentirono trascurati e glielo rinfacciarono. Ma ogni rimbrotto cadeva nel vuoto. Lei aveva scoperto, o riscoperto, un nuovo mondo, e poi Ljubov le piaceva. Più di quanto avrebbe dovuto piacerle. L’attraevano i suoi occhi tondi, tristi e molto russi, e forse due donne, maestra e allieva, si scambiarono anche effusioni. O, forse, tutto restò nel limbo platonico del desiderio, nell’immaginosa fascinazione.
A fare le spese di tutto questo, il rapporto con Scott. Zelda avrebbe voluto emanciparsi, almeno economicamente da lui, pagarsi da sola le lezioni di danza. Poteva rimettersi a scrivere. Ne parlò con l’agente suo e di Scott, ma quando questo lo venne a sapere, reagì furiosamente. Non voleva a nessun costo, e per nessuna ragione, che la moglie utilizzasse scrive la Stromberg i suoi stessi temi, che si riferiscono ai medesimi avvenimenti, incontri, esperienze, ma spesso anche agli appunti di Zelda. 
Pretesa assurda, meschina gelosia, ma Scott, il grande Fitzgerald, era capace di simili bassezze. Il genio non tollerava la concorrenza, di nessuno o, quella che egli, succubo di un Io ipertrofico, giudicava tale. Nemmeno della moglie che, consapevole dei propri limiti e del prodigioso talento del marito, mai si sarebbe messa in competizione con lui.