Corriere della Sera, 3 ottobre 2018
Il cuoco dei presidenti
In ventinove anni di onorato servizio al Quirinale, il Cavaliere Pietro Catzola, nato il 10 aprile 1959 a Triei, un migliaio di abitanti nella sarda Ogliastra, ha cucinato per cinque presidenti. Dell’ultimo, Sergio Mattarella, dice che mangia «francescano»: «Molte zuppe, con ceci, lenticchie, roveja». Quando tocca a lui coprire il turno in cucina, lo aspetta nell’andito per un saluto: «Il suo sorriso è il complimento più bello che possa ricevere. E quando mi chiede come va, per me è sempre un regalo».
Ma è del primo, Francesco Cossiga, che conserva il ricordo più affettuoso: «È lui che mi ha voluto al Colle, dopo aver mangiato un maialetto arrosto che avevo preparato sull’Amerigo Vespucci, dove ero in servizio come sottufficiale della Marina. Ho sempre avuto il pallino di dedicare alla mia Sardegna un angolo di ogni buffet. Quella volta venivamo da Cagliari, dove avevamo preso dei sugheri sui quali avevo servito la carne». Accontentare «il Signor Presidente» era facile: «Amava i fritti, ma anche la cotoletta alla milanese o la crepe Suzette. Bottarga come se piovesse. Una volta per pranzo servii un dentice che era stato pescato quattro ore prima al largo di Alghero». E non può dimenticare di quando a Castel Porziano gli chiese di Santa Maria Navarrese: «Mi confessò che mangiava il formaggio con i vermi e il pane carasau sotto la Torre saracena». Nella dispensa, non mancava mai il Cannonau.
Catzola, «cuoco, non chef», ci racconta per telefono che servire i presidenti della Repubblica non era mai stato un suo obiettivo. «Mi ero arruolato a 16 anni, la mia vita era il mare. E allo stesso Cossiga, quando mi chiese di raggiungerlo al Quirinale, la prima volta, e anche la seconda, risposi di no». Poi si convinse e prese servizio il 6 novembre 1989. «Ventitré giorni dopo (29 novembre 1989) stavo preparando il primo pranzo ufficiale per Mikhail Gorbaciov. Mi sentivo piuttosto osservato...». Questi ricevimenti non li dobbiamo immaginare come certi banchetti sterminati ai quali il cuoco sardo era ben abituato. «Sono cronometrati, durano 45 minuti, bisogna assolutamente rispettare i tempi». Stando così le cose, gli spaghetti sono sconsigliati. «Meglio preparare dei cannelloni, al limite il risotto». Capitano anche gli inconvenienti. «Per esempio per Bush avevamo preparato i babà. Peccato scoprire che lui non beveva alcolici: riuscimmo a recuperare all’ultimo rimettendoli a bagno nella spremuta di arancia».
Dopo Cossiga arrivò Oscar Luigi Scalfaro. «Anche a lui sono grato. In teoria me ne sarei dovuto andare, perché formalmente ero solo “distaccato”. Invece mi chiese di restare. La “signorina” (Marianna Scalfaro, ndr) rivoluzionò le cucine e volle fare un orto a Castel Porziano. Con il padre a tavola non mancava mai la gelatina di aceto di mele a cubi, la cipolla di tropea marinata, le crudités. Gli piacevano baccalà alla griglia, nodini di vitello, risotti: allo zafferano, al radicchio trevigiano, con le spugnole, alle erbe; ai tempi ne facevamo mantecare dodici tipi diversi, oggi quattro».
Carlo Azeglio Ciampi mangiava di tutto: «Da una semplice cicala al vapore condita con il limone fino alla trippa, al fegato, alle code alla vaccinara. La signora Franca, poi, una nobildonna... Da lei ho imparato l’arte della pasta fresca, le tagliatelle con il mattarello. Nella mia zona si preparano i macarronis de busa, i maccheroni lunghi fatti con il ferretto, che però preferiva più corti. A lei devo la ricetta del cacciucco alla livornese».
Un’altra ricetta ereditata da una «First Lady» è quella del cardone: «La zuppa di cardo mi insegnò a prepararla la signora Clio Napolitano per il primo Natale del primo settennato: il brodo doveva essere fatto con il cappone a pezzetti anziché con la gallina. Il presidente amava lo spaghetto semplice al pomodoro, la lasagna napoletana con mozzarella e ragù senza besciamella, il gateau di patate. Gli piacevano le formaggelle, dei dolci sardi che gli preparavo a casa e gli portavo poi al Quirinale. Una volta, dopo aver incontrato la Brigata Sassari, mi raggiunse in cucina e mi disse che gli avevano cantato una marcetta: era il “nostro” inno, la cantai subito anch’io».
Pietro Catzola, nominato Cavaliere da Scalfaro nel 1999, potrebbe già andare in pensione. «Ma io sto qui per passione! Servire i presidenti mi rende felice».