Il Messaggero, 1 ottobre 2018
Intervista a Uto Ughi
Uto Ughi è senza alcun dubbio uno dei più violinisti più apprezzati e popolari in circolazione. Settantaquattro anni, racconta che ne aveva solo tre quando prese in mano il primo strumento: era così piccolo che glielo legarono al collo per non farlo cadere. Da allora, una vita per la musica. Il 3 ottobre il maestro sarà all’Auditorium Parco della Musica di Roma, sempre con i suoi due preziosi violini, lo Stradivari del 1701 e il Guarnieri del Gesù Rose del 1744.
Da quanto manca dall’Auditorium?
«Tre anni. Tornare qui è per me motivo di orgoglio: parte del ricavato andrà alla Fondazione Telethon per la cura delle malattie genetiche rare».
Quale sarà il repertorio?
«Da Boccherini a Saint Saens, da Mozart e Wieniawski. Alcuni pezzi fanno parte di Note d’Europa, il mio ultimo disco sugli autori che erano anche viaggiatori instancabili».
Un disco che viaggia?
«Sì. Non amo le classifiche, ma un album resta una testimonianza delle fasi di un’artista. È una prova di verità, a prescindere dal mercato in sé. C’è chi ha registrato molto, come Glenn Gould, e chi ha preferito il contatto con il pubblico. Abbiamo così registrazioni di artisti unici come Maria Callas, Pablo Casals, Enrico Caruso, di cui altrimenti avremmo un lontano ricordo».
Come se la passa, oggi, la cultura in Italia?
«Male. La totale mancanza di insegnamento nelle scuole penalizza fortemente le giovani generazioni. La musica, per esempio, nonostante l’esortazione degli artisti italiani più grandi, manca del tutto, o quasi, dai programmi scolastici».
Lei si era esposto in passato, anche polemizzando con l’ex ministro dei Beni Culturali Urbani, affinché non si penalizzassero i teatri.
«Sì, è vero. E da allora, era il 2002, nulla ho ottenuto. Spesso i lavori di restauro hanno peggiorato le acustiche dei teatri storici, facendo un grave danno alla qualità e alla bellezza del suono».
E oggi? Qual è la situazione?
«Poco o niente è cambiato».
Difficile esprimere la propria opinione, soprattutto se controcorrente?
«Non è facile. E credo sia difficile distinguere il meglio dal peggio in una democrazia come la nostra».
Cioè?
«La musica non può essere definita di parte».
E i giovani?
«Oggi va tutto veloce a scapito dell’analisi e dell’approfondimento. La Scala aprirà la stagione con Attila di Verdi, opera poco conosciuta. E penso sia giusto. Il pubblico ama sentire quello che già conosce un po’ per pigrizia e un po’ per mancanza di conoscenza».
La sua famiglia di origine istriana fu costretta a fuggire dalla sua terra, perdendo tutto. Cosa pensa dei problemi sull’immigrazione oggi?
«Chi ha sofferto porta dentro di sé le cicatrici e non si lamenta. Penso che l’accoglienza debba essere distribuita equamente nel continente europeo».
Ha mai pensato di smettere di suonare?
La vita è un alternarsi di forza e debolezza. Momenti di debolezza ne abbiamo continuamente, ma la passione per quello che si fa vince».
Il suo rapporto con i colleghi?
«Mi piace il confrontoe, è stimolante. Sbagliatissimo chiudersi nella propria torre d’avorio. Così con i direttori d’orchestra: Sawallisch, Prêtre, Mehta. Da ognuno di loro ho ricevuto un arricchimento umano e musicale».
Continua a leggere tanto?
«Sì. Tutti quelli che hanno un pensiero dovrebbero leggere almeno un’ora al giorno. Così si esce dalla ristrettezza dell’io. In Italia, purtroppo, si legge poco».
Progetti?
«Riprenderò la diffusione musicale tra i giovani, come in passato, perché lo ritengo un servizio importante per il Paese. E sono certo che troverò ascolto».
Se le chiedessi di descriversi?
«Non sono mai sceso a compromessi con la musica e ho provato, nel bene e nel male, a suonarla sempre con onestà. Il compromesso è nemico della vera arte».