2 ottobre 2018
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Biografia di Raffaele La Capria
Raffaele La Capria, nato a Napoli il 3 ottobre 1922 (96 anni). Scrittore. Sceneggiatore. Traduttore. «Un buon tuffo è come un buon romanzo: deve avere una grande spinta iniziale, un perfetto svolgimento in aria e un’entrata in acqua impeccabile. Come la chiusura dell’Ulisse di Joyce: quel “sì” assoluto che è un inno alla vita. Senza spruzzi» (a Federico Pistone) • «A Napoli chiunque ha un soprannome, e io non faccio eccezione. Con la sua fantasia, mia madre passò da Raffaele a Dudù, una personcina francese che lei adorava, per puro vezzo. […] A me “Dudù” piace. Se gli altri nicchiano, io lo impongo. Ho ancora questa autorità. Poi bisogna saper distinguere. Certe volte gli amici ti chiamano Dudù per affetto, altre volte, ma più raramente, per sfottere. I lazzi raggiunsero l’acme all’epoca dello Strega. Flaiano diceva “Dudù non sei più dù” e Gadda raccontava a tutti che era stato in un albergo dalle pareti molto sottili e mentre dormiva era stato svegliato da due amanti scatenati. Facevano l’amore, e lei incitava in inglese “do, do, do”. Dù-dù-dù». «Due partiti si fronteggiano – i Duduisti e i Raffaeliani – senza aver mai risolto la tenzone onomastica. […] Fra i Duduisti hanno militato e militano tuttora vecchi amici non solo concittadini; fra i Raffaeliani – oltre alla moglie Ilaria Occhini – soprattutto scrittori e critici di successive generazioni» (Enzo Golino) • «Papà era un commerciante all’ingrosso di grani, fu anche presidente del consorzio agrario, e quindi era costretto a parlare italiano. Mentre mia madre alternava l’italiano al francese. Io e mio fratello […] rubavamo il dialetto e i suoi misteri a Rosaria, la nostra cameriera. Lei era una cassaforte di napoletanità». «Fu un canarino, un canarino che imprevedibilmente si posò sulla mia spalla mentre attraversavo i giardini della Villa Comunale, a Napoli, a farmi intuire quanto poteva essere difficile il mestiere di scrivere. Ero un ragazzino che frequentava la prima ginnasiale e l’unica mia esperienza di scrittura era il tema in classe. Nel momento in cui si posò io rimasi immobile per lo stupore, e così restai per non turbarlo col minimo movimento; ma il mio cuore batté tanto forte per l’emozione che dovette sentirlo anche il canarino, tant’è vero che se ne volò via. La mia storia però comincia subito dopo, quando, tornato a casa, volli raccontare a mia madre quel che era accaduto e quello che avevo provato. E, appena dissi “Mamma, oggi un canarino si è posato sulla mia spalla”, mi accorsi sconfortato di non aver detto nulla, proprio nulla, di quel che era accaduto. Come si fa a dirlo?, pensai. Cominciai da quel momento a rimuginare». «Da piccolo, quando lo sguardo ha cominciato a distinguere le cose, lui, dalle finestre di casa, sotto e davanti a sé, altro non vedeva che il mare di Posillipo. La casa, entrata poi come un mito sentimentale nel romanzo Ferito a morte che Vittorio Caprioli trasformò nel film Leoni al sole, è Palazzo Donn’Anna, avvinghiato a uno sperone di roccia e proteso come un vascello verso il mare aperto. Fu costruito nel Seicento dal viceré spagnolo Don Ramiro de Guzmán per la moglie napoletana Anna Carafa. Nel palazzo lasciato incompiuto andò ad abitare la famiglia La Capria, e in quelle stanze Raffaele detto Dudù nacque e visse fino alla giovinezza. Perciò il palazzo gli si è conficcato nel cuore come un ramo di corallo. “Se la giornata era bella, al risveglio aprivo felice la finestra e mi buttavo direttamente in acqua, sei metri più giù. Se era brutta m’immalinconivo e mi mettevo a leggere”» (Osvaldo Guerrieri). «“Guaglio’, statte attento, hai letto troppi libri”, così rimproverava il piccolo Raffaele La Capria il dolcissimo e affettuoso padre. […] La sua avidità-attività di lettore ha avuto l’incipit a Palazzo Donn’Anna. […] “Nell’ala incompiuta del palazzo si diceva che passeggiassero gli spettri. Ero terrorizzato dal rumore delle onde che si percepiva ovunque. Però credevo di essere il capitano Nemo in Ventimila leghe sotto i mari. Divoravo poi I tre moschettieri, un libro meraviglioso che metteva in moto la mia fantasia. Al liceo ebbi come compagni, oltre al presidente Napolitano, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Massimo Caprara, Renzo Lapiccirella, Luigi Compagnone, Francesco Rosi. Molti di loro saranno poi iscritti come me alla sezione del Gruppo universitario fascista, dove si faceva un po’ di fronda, si parlava in termini negativi del regime, si discuteva molto di cinema, teatro e letteratura. Un libro segna la mia giovinezza. Fu composto alla vigilia della Grande guerra, nella quale l’autore, Alain-Fournier, troverà la morte appena ventisettenne: Il grande Meaulnes, romanzo sull’adolescenza e sull’amicizia. […] Fu Caprara, futuro segretario di Togliatti, che mi fece conoscere un libro fondamentale, Da Baudelaire al surrealismo di Marcel Raymond. Cominciai ad amare Rimbaud, Valéry, Mallarmé. Intanto maturava la mia coscienza politica, anche attraverso approcci singolari come gli scritti di George Bernard Shaw che aveva aderito alla Fabian Society, un gruppo intellettuale di socialisti attenti più ai problemi dell’uguaglianza sociale che non a quelli della lotta di classe”» (Mirella Serri). «Positano era […] lo splendore della sua costa, delle rocce a picco sul mare o dei sassolini bollenti delle spiagge su cui correre a piedi scalzi, manco fosse una prova ordalica. Era inoltre il luogo delle mie immersioni e della mia pesca subacquea, delle serate con gli amici, quasi tutti vacanzieri venuti da Napoli, e degli inevitabili primi amori. […] Ma Positano era anche il posto in cui, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, era possibile incontrare fior di intellettuali, soprattutto tedeschi in fuga dalle persecuzioni di Hitler. Pensi che grazie a loro ho scoperto l’Espressionismo e la pittura di Klimt, prima che la loro conoscenza si diffondesse anche in Italia. […] Della villa di mia zia, per esempio, erano abituali frequentatori personaggi del mondo del teatro come l’attrice Andreina Pagnani, i commediografi Cesare Giulio Viola e Aldo De Benedetti, il disegnatore e scenografo Umberto Onorato e così via. Avevo 18 anni, e quei discorsi, quei confronti a così alto livello, mi portarono a immergermi nella lettura, in particolare della letteratura americana prebellica di autori come John Steinbeck, di cui apprezzai molto Uomini e topi. Ma anche russa, come nel caso del libro Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa di Krasnov. Era il tempo in cui maturavo dentro di me la scelta di diventare uno scrittore. E infatti fu proprio allora che iniziai a scrivere qualche racconto breve». «“Nel ’43 fui chiamato alle armi: mi ritrovai in Puglia, a Mesagne, nell’entroterra di Brindisi, una zona considerata “d’operazione”. Sotto le tende degli accampamenti io e Ghirelli ci distraevamo traducendo André Gide”. Quando tutto finì, nella Napoli appena uscita dall’incubo dei bombardamenti, ci fu un’“esplosione di vitalità, si ballava il boogie woogie per strada, le ragazze, truccate come dive hollywoodiane, se ne andavano in giro strette ai loro soldatini americani”. Iniziarono “le stagioni estive dei circoli nautici e della pesca subacquea”» (Fulvia Caprara). «Lei a un certo punto lascia definitivamente la città, lascia Palazzo Donn’Anna dove lei ha raccontato la sua adolescenza, e si trasferisce a Roma. “Avevo bisogno di un lavoro, e a Napoli non lo trovavo. La spiegazione mi sembra semplice. E invece quella scelta mi venne addebitata come un tradimento. A Napoli facciamo così”. Quando arrivò a Roma? “Era il 1952. Non avevo né arte né parte”» (Antonio Gnoli). «La capitale accoglieva e inghiottiva tutto, i confronti erano memorabili, bisognava dividersi tra gente del calibro di Federico Fellini, Alberto Moravia, Ennio Flaiano. Le giornate iniziavano in centro, ai tavolini dei bar di via Veneto, spesso si allungavano sulle spiagge di Ostia e di Fregene: “Lavoravo alla radio. Lo facevano in tanti, fra gli intellettuali dell’epoca: si collaborava per guadagnare qualcosa…”. Le conversazioni erano infinite, ma “i racconti più belli ce li aveva sempre Fellini, era un gran seduttore, ideava storie straordinarie”. […] Si restava inchiodati ad ascoltare, fino alle due o alle tre di mattina: “C’era un’incredibile gioia di vivere, ma forse oggi confondo la bellezza di quella vita sociale con la bellezza della giovinezza”. I miracoli erano all’ordine del giorno: “Scrivevi una sceneggiatura e per un mese o due diventavi un ricco signore, potevi comprarti una spider e scarrozzare le ragazze”» (Caprara). Nel frattempo, La Capria era approdato alla Rai, dove sarebbe rimasto per circa trent’anni, lavorando come sceneggiatore: «Fu Bernabei ad assumerlo in Rai, lui e pure Eco, assieme a molti altri scrittori, intellettuali… Era una forma di mecenatismo. In questo modo Bernabei finanziava la cultura italiana, poi quasi nessuno di loro lavorava troppo alla televisione, in realtà. “Debbo confessare che sono stato un parassita”, dice con uno sguardo quasi da monello. “Ma poi mi dico pure: era meglio fare il bravo impiegato o scrivere tutti i romanzi che ho scritto in quegli anni? Forse sono stato più utile così alla società”» (Salvatore Merlo). «A trent’anni, nel 1952, Raffaele La Capria esordisce nella narrativa con il romanzo Un giorno d’impazienza, pubblicato da Bompiani: in copertina un uomo e una donna, visibilmente giovani, chiara allusione ai protagonisti. È il particolare di un quadro di Marc Chagall, Entre chien et loup, scelta che ben rappresenta l’incertezza erotica e passionale di una vicenda racchiusa in una sola febbrile giornata vissuta dall’io narrante, un innominato, confuso, introverso diciottenne attratto da Mira, dalla sua inconsapevole corruzione. […] Elogi anche autorevoli non mancarono, quasi sorpresi da un libro controcorrente» (Golino). «Il suo primo grande successo, nel 1961, Ferito a morte, coincide con una combattuta edizione del Premio Strega. “Superai Arpino per un solo voto, ma da ragazzo ero più presuntuoso di oggi, e quella vittoria in qualche modo me l’aspettavo. Conquistai un premio che a differenza di oggi poteva cambiarti la vita”. E quel premio le cambiò davvero la vita? “Per ragioni diverse da quelle che si potrebbero immaginare. Gli editori premevano per mungere lo scrittore di grido e io mi sentii a disagio. La mia indifferenza al plauso non era impostata, era reale. Mi ritirai all’improvviso, e per un lungo decennio non scrissi più niente”. Come sfruttò quel tempo? “Cercai di capire meglio chi ero. Volevo sapere chi fossi diventato veramente, e mi impegnai per scoprirlo ogni giorno senza pretendere risposte certe. Fu come entrare in un territorio sconosciuto”» (Malcom Pagani). «Nella parabola di La Capria davvero tutto si tiene. L’episodio più noto di questa parabola rimane probabilmente Ferito a morte, centro e climax dei “Tre romanzi di una giornata”, il ciclo che va dal giovanile esistenzialismo di Un giorno d’impazienza (1952) ad Amore e psiche (1973), referto di una “irrealtà quotidiana” paragonabile a quella delle pioveniane Stelle fredde. Il capolavoro del ’61 è uno dei pochi romanzi italiani che abbiano saputo confrontarsi senza goffaggini da parvenu col modernismo degli anni Venti e Trenta: quello dell’Ulisse, di L’urlo e il furore e della Woolf. […] Col supporto delle più aggiornate poetiche anglosassoni, il narratore coglie uno spazio tutto meridionale, solare e mediterraneo, che vede scorrere la storia dietro il velo di antiche inerzie brancatiane, ma che proprio per questo è anche immerso nella felicità quasi mitica di un’eterna “bella giornata”. […] Trionfa così un motivo centrale nell’intera opera di La Capria: quello della Bellezza sempre presente e sempre inafferrabile. […] Nel libro del ’61, il motivo è legato a una Grande Occasione Amorosa perduta; mentre nei testi più tardi, slegati da ogni esigenza di plot, diviene al tempo stesso ubiquo e subliminale. La metamorfosi si verifica lungo gli anni Settanta, quando lo scrittore matura una progressiva sfiducia nelle tecniche moderniste, e inizia a ripensare in maniera diversa sia alla propria vocazione che alla crisi novecentesca della narrativa. A questa altezza, La Capria si libera dalla “superstizione” del Romanzo. […] Per sfuggire alla degradazione gergale degli sperimentalismi moderni, nella seconda parte della sua vita La Capria sceglie così la distratta, incantevole naturalezza dei Sillabari di Parise, modello esplicito dei suoi Fiori giapponesi (1979). Di qui nasce l’autobiografia letteraria ed esistenziale a puntate che va da False partenze (1975) a Lo stile dell’anatra (2001), passando per Letteratura e salti mortali (1992), La mosca nella bottiglia (1996) e Il sentimento della letteratura (1997). E dalla stessa svolta scaturiscono poi sia la produzione narrativo-saggistica degli anni Ottanta su Napoli (L’armonia perduta, La neve del Vesuvio) sia i libri più indefinibili dell’ultimo decennio (L’estro quotidiano, L’amorosa inchiesta, A cuore aperto), che sembrano quasi “scritti su seta”, come diceva Flaiano della prosa di Comisso. Se la letteratura più tipicamente novecentesca esibisce a ogni passo le sue vertiginose oltranze teoriche o stilistiche, sotto le quali si cela spesso più un diabolico orgoglio intellettuale che una reale necessità conoscitiva, La Capria propone uno stile esattamente contrario, lo “stile dell’anatra”: cioè di un animale “che senza sforzo apparente fila via tranquillo e impassibile sulla superficie, mentre sott’acqua le zampette palmate tumultuosamente e faticosamente si agitano: ma non si vedono”» (Matteo Marchesini). «Avevo compiuto ottant’anni, e Mondadori decise di raccogliere la mia opera in un Meridiano. Subito dopo, mi sono sottoposto a un difficile intervento chirurgico a cuore aperto e mi sono detto: vuoi vedere che col Meridiano considerano la mia opera finita? Mi sono ribellato. E così, tra gli ottanta e i novant’anni, ho scritto parecchi libri. […] Ho fatto una cosa importantissima per me. Se non avessi scritto tutto ciò che ho scritto tra il Duemila e oggi, la mia opera sarebbe stata priva del mio De senectute, cioè di tutti i pensieri, i sentimenti, i risentimenti che si provano quando non si è più giovani». Nella nuova edizione riveduta e ampliata del 2015, il Meridiano dedicato a La Capria si è arricchito di un secondo volume. «A mano a mano che la vecchiezza lo incalza, lo scrittore esce sempre più allo scoperto, a svelare l’autobiografismo diretto o trasposto che connota, senza distinzione di generi, il suo libro unico. Sono i racconti in forma di lettere inviate alle persone care, sono le notazioni che, a guisa di diario, oscillano tra la malinconica rimembranza e una puntuta attenzione agli accadimenti del mondo. Praticando, in sintonia con l’amato Montaigne, l’arte del disincanto; rifugiandosi, contro la faziosità che imperversa nella politica e nella cronaca, in una non accomodante, faticosa “terzietà esistenziale”. Con una scrittura che conserva la fluida eleganza e il garbo della grande conversazione d’altri tempi» (Lorenzo Mondo) • La Capria è anche autore o coautore di numerose sceneggiature cinematografiche, soprattutto per Francesco Rosi (Le mani sulla città, C’era una volta, Uomini contro, Cristo si è fermato a Eboli, Diario napoletano), ma anche per Vittorio Caprioli (Leoni al sole, ispirato a Ferito a morte), Luigi Comencini (Senza sapere niente di lei), Giuseppe Patroni Griffi (Identikit), Lina Wertmüller (Sabato, domenica e lunedì, Ferdinando e Carolina). «Scrivere una sceneggiatura significa capire che un tavolo per stare in piedi deve avere tutte e quattro le gambe della stessa lunghezza. Questa parte di artigianato farebbe bene anche al romanzo. Invece molti autori contemporanei, soprattutto i giovani, spesso se ne dimenticano» • Condirettore di Nuovi Argomenti e firma del Corriere della Sera • Due matrimoni, due figlie: Roberta dalla prima moglie, Alexandra dalla seconda e attuale consorte, l’attrice Ilaria Occhini, suo grande amore da oltre cinquant’anni. «Incontrai Ilaria quando, da regina degli sceneggiati televisivi e del teatro, era la diva italiana più amata, bella e desiderata. Ho avuto l’avventura di essere accolto da questa piccola divinità, mi sono sforzato di non crederci per non dovermi svegliare e ho camminato con lei fino ai novantun’anni. Mi ricordo che quando eravamo sulla Spider fianco a fianco la mia domanda era sempre la stessa: “Ma perché questa ha scelto proprio me?”» • «Di sinistra, eppure mai dentro la chiesa del Partito comunista, non è mai stato quello che un tempo si chiamava intellettuale organico. Eppure La Capria era circondato dai comunisti. […] Erano quasi tutti comunisti i suoi amici: com’è che lei non lo è stato mai? “E se è per questo molti erano pure froci. Ma io non sono mai stato frocio. A me del comunismo non me ne è mai importato nulla, per via di quella che chiamo ‘logica elementare’, che si contrappone alla ‘logica ideologica’”» (Merlo). «Io, pur da sinistra, ho sempre privilegiato il senso comune. Che non è conformismo né populismo. Solo il badante dell’ideologia» • «Mi sento come quei pittori che prima buttano giù i colori, e poi fanno due passi indietro per vedere che cosa hanno dipinto. Voglio dire che, a distanza, Napoli la riesco a capire meglio». «In tutti questi anni una cosa ho capito, che è inutile lamentarsi. “L’universo fa il suo mestiere”, cioè tu o uno scarafaggio, per la forza vitale che muove il mondo e continuamente afferma la sua potenza – cui devi naturalmente partecipare, se vuoi o se non vuoi –, tu o uno scarafaggio avete la stessa importanza. “Io grido e tu non mi rispondi”, dice Giobbe al Dio della Bibbia. Ma a me sembra che a volte Dio mi risponda quando una mattina qualsiasi apro la finestra e la luce di una bella giornata romana inonda la stanza e tutto illumina il mondo. Allora il mio umore cambia, e una specie di speranza, di lieto fine indefinibile, s’accende nel mio cuore. Io insomma mi sento rinascere e non ho più novant’anni». «Quando morirò, qualcuno a tavola dirà “Lo sai? è morto La Capria”, proprio mentre un altro starà dicendo: “’Sta bottiglia sa un po’ di tappo… Come dicevi? Ah sì, è morto Dudù… Però, buono ’sto vino”. Oggi più di ieri siamo presto dimenticati; e la cosa, debbo dire, non mi dispiace affatto».