Corriere della Sera, 2 ottobre 2018
Libia, tra i migranti dimenticati nelle celle delle milizie. «Tutte le donne stuprate Uno su dieci è annegato»
«Sì, sono stata violentata per più giorni da tre miliziani libici. Lo fanno continuamente con noi ragazze africane. Io ho visto almeno altre 10 donne subire la stessa sorte. Per i libici è una cosa normale, scontata: torturano gli uomini e violentano le donne, almeno quelle sotto i quarant’anni, che poi sono la maggioranza tra le migranti». È raro trovare in Libia una ragazza africana che ammetta di avere subito questo tipo di violenze. In genere ne parlano solo una volta sbarcate in Europa. A Tripoli e soprattutto nelle città e villaggi della regione hanno paura. Se le riconoscono a denunciare ciò che avviene, i loro aguzzini possono essere ancora più feroci. Ma forse tra le mura dalla cattedrale cattolica nella capitale Lily Susan si sente in qualche modo più protetta. «I miei violentatori erano i nostri carcerieri arabi dalla pelle bianca della milizia che opera nei quartieri tripolini di Yarmuk e Salahaddin. Due meno che trentenni, un altro sulla cinquantina», specifica. Lily ha 35 anni e nel giugno 2017 è partita dalla Namibia. In Libia è approdata il 2 agosto dell’anno scorso. Poco dopo è stata catturata con il fidanzato, Austin Aduga, 38 anni, arrivato dalla Nigeria. «Le violenze sessuali si sono ripetute per due mesi dopo la cattura. Ci picchiavano con i calci dei mitra, urlavano, minacciavano. Gridavano che se non avessimo smesso di resistere ci avrebbero uccise. Poi sono arrivate altre donne e noi siamo state lasciate in pace», continua lei.
È una delle tante storie che raccogliamo durante la messa del venerdì mattina. La cattedrale dedicata a San Francesco è stracolma. Difficile trovare da sedere. L’unica bianca tra i fedeli è Iolanda Ingrassia, una 62enne originaria di Palermo, che dopo aver sposato un tripolino da oltre un trentennio risiede in Libia. «Non avrei mai pensato che questo Paese potesse sprofondare tanto in basso. Quattro dei miei cinque figli sono emigrati all’estero. Se non fosse che l’ultima mia figlia insiste per restare a esercitare il suo mestiere di medico in uno degli ospedali più importanti, anch’io me ne sarei tornata in Italia da un pezzo». La funzione è cantata nei dialetti dei gruppi di fedeli della Nigeria e del Camerun, che sono al momento i più numerosi. «La nostra Chiesa rispecchia i cambiamenti di questo Paese. Ai tempi di Gheddafi venivano gli ultimi rimasti dell’antica comunità italiana. Poi sono arrivati i filippini impiegati come domestici nelle case benestanti. Ora sono gli africani intrappolati tra la ferocia delle milizie e la recente chiusura dei porti italiani al traffico di migranti», commenta il sacerdote ufficiante, il frate francescano 47enne d’origine egiziana Magdi Helmy. È qui da 13 anni, ha subito ripetute minacce personali. Per gli estremisti islamici rimane un obbiettivo legittimo. «Ma di qua non mi muovo. Troppe anime hanno bisogno del nostro aiuto. Valutiamo che al momento siano oltre 20.000 i cristiani tra le masse di migranti», dice deciso.
Lui e tanti tra i suoi fedeli raccontano degli orrori che si consumano nelle celle delle milizie locali. «Voi giornalisti occidentali, le organizzazioni non governative e le agenzie Onu vi concentrate sulle poche migliaia di migranti chiusi nei sette o otto campi di detenzione ufficiali del governo libico. Ma dovete sapere che le tragedie più gravi sono altrove: è alle milizie che dovete chiedere di rendere conto», esortano.
Mercoledì scorso ci siamo così recati nel campo di detenzione a Khoms, uno dei luoghi dove vengono riportati i migranti appena ripescati in mare dai guardacoste nelle zone orientali della Tripolitania. Si chiama Sukh al Kamis e secondo il suo responsabile, colonnello Mustafa Ismahil, contiene al momento circa 350 persone. «Sono i sopravvissuti ai naufragi delle ultime settimane. Calcoliamo che circa uno su dieci tra quelli che riportiamo a riva sia affogato in alto mare», dice. Meno di una settimana fa qui hanno trascorso una notte tragica: una trentina i salvati, ma oltre cento quelli che non rispondono all’appello. In celle minuscole coperte di scritte, nomi e appelli anche in francese ed inglese, i migranti-prigionieri restano sdraiati su povere stuoie in attesa di non si sa cosa. Tra i veterani c’è Yosef Barma, farmacista eritreo 38enne che a tutti porge una domanda molto semplice: «Per la legge internazionale sono un profugo politico, fuggo da una dittatura e ho diritto d’asilo. Chi può aiutarmi?». Accanto a lui c’è il 36enne Mohammad Kandih immigrato 8 anni fa dal Gambia. «Per tutto questo tempo avevo lavorato bene in Libia come operaio specializzato. Mi sono sposato con Isab che ha 19 anni e mi ha dato nostro figlio Sumail, nato 9 mesi fa. Ma in giugno le milizie hanno fatto irruzione a casa nostra nelle periferie di Tripoli. Mi hanno derubato, portato via ogni cosa. È allora che mio padre in Gambia ha venduto tutti i suoi terreni e mi ha mandato 6.000 dollari per pagare gli scafisti e andare in Italia. Ma due notti fa siamo stati fermati dai guardacoste libici dopo sei ore di navigazione. Ci hanno riportati indietro. Ho perso tutto e così mio padre. Adesso ho una sola domanda: posso rivedere mia moglie e mio figlio? Sono chiusi qui vicino, ma non lasciano che io li incontri». I miliziani libici di fronte al giornalista straniero si mostrano magnanimi. Le celle vengono aperte e la famiglia Kandih per un attimo può riabbracciarsi. Il piccolo Sumail piange di gioia nel rivedere il padre. Ma ora è tardi. Noi dobbiamo partire. E che sarà di loro?