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 2018  ottobre 02 Martedì calendario

Antonio Albanese: «Una risata seppellirà i Topi che ci infettano»

Bisogna vederlo, il boss Antonio Albanese, strisciare nei tunnel della casa bunker, infilarsi in tombini, cunicoli, tombe (quella della madre), o pianificare nefandezze nella cella frigorifera dell’amico pellicciaio U Stuortu (Nicola Rignanese). Tutti e due col colbacco «come Putin».

È nella pellicceria che invitano Baby dance, architetto che loro chiamano "geometra", incaricato di fare ogni tipo di abuso edilizio: «Siamo per la pace, e quindi il cemento lo disarmiamo».
Bisogna vederlo per capire come il mondo dei mafiosi raccontato nella serie I Topi, dal 6 ottobre su Rai 3 (da oggi disponibile su RaiPlay), sia un capolavoro di intelligenza e ironia. Autore, regista e interprete (producono Wildside, RaiFiction e il Centro di produzione di Torino) Albanese è il latitante Sebastiano. Vive con la famiglia e lo zio Vincenzo (Tony Sperandeo) che ascolta Isoradio e vorrebbe vedere il mare.
Dialoghi surreali e soprannomi meravigliosi: Baby dance «è il figlio di Dance dance dance, che per farlo smettere di ballare bisognava gambizzarlo»; il sarto è Nic Boutique, Scintilla è figlio di Coglione ’e ferro, fratello di Fava squadrata sposato a Pasticcino. Sebastiano è ignorante, rozzo, protetto da moglie (Lorenza Indovina) e zia (Clelia Piscitello) corretto dai figli (Michela De Rossi e Andrea Colombo).
Albanese, questo mafioso tutto da ridere lascerà il segno.
«Questo tipo di illegalità mi manda fuori di testa. Quando il produttore Mario Gianani mi ha chiesto se avevo qualche idea per la tv ho ripensato all’immagine del filmato di un arresto, in cui veniva scoperchiato un armadio e usciva un latitante. Da otto mesi era rinchiuso lì, mangiava pasta col tonno e non si fidava neanche dei familiari. Un cretino. Si può vivere così?».
Naturalmente no.
«Ma per loro, i latitanti, i mafiosi, sì può. Quando vedi i blitz della polizia o dei carabinieri resti senza parole. Allora ho provato a scrivere, liberamente, sentendo una rabbia profonda, e la scrittura è scivolata via, così sono entrato nel loro mondo ridicolo. Ho letto, studiato, e più mi venivano le idee più mi esaltavo. Ho immaginato come potesse muoversi, i compagni di viaggio… Ho fatto leggere le prime pagine e mi hanno detto di andare avanti. Dovevano essere quattro puntate, mi hanno pregato di farne sei. Sul set — dal direttore della fotografia, allo scenografo al costumista — siamo entrati nel mondo di Sebastiano».
Si è posto il problema se, nella sua sgangheratezza, non risultasse irresistibile?
«Ero consapevole dei rischi. Fa ridere. Ma abbiamo mostrato che i personaggi possono essere carini nell’aspetto, però ignorantissimi. Ignobili. Sebastiano rappresenta l’illegalità in maniera grottesca: ridicolizzare i boss è un modo di disarmarli. Perché certo, con una pistola in mano possono accumulare soldi, ma secondo me l’ironia è una delle forme più alte di difesa. Una delle cose che li offende di più. Con I Topi rielaboro la realtà. La verità? Io non ho inventato proprio niente».
C’è sempre un sottotesto, come in altri suoi personaggi, Cetto Laqualunque o il ministro della paura. Non trova che spesso la realtà superi la fantasia?
«Succede, eccome. Ma sono convinto che un certo tipo di ignoranza non porti lontano. Lo stesso vale con l’illegalità, che genera solo ignoranza. Questa famiglia è classica: la figlia, come spesso capita, si laurea in Economia per ripulire i soldi. Il figlio, disprezzato dal padre, è aspirante chef, non a caso una certa delinquenza usa la ristorazione per investire i capitali».
Sebastiano organizza, progetta investe ma vive come un topo.
«Questo è il punto. Il topo porta infezioni terribili. Noi raccontiamo l’ignoranza bestiale, per questo ho scelto questo titolo: la mafia infetta la società e tutto quello che tocca».
Quanto le mancava la televisione?
«Erano anni che non ci tornavo, ed è la prima volta che faccio una serie mia, in un contesto in cui ho potuto avere il controllo del prodotto. È stata una gioia lavorare con Nicola Rignanese, amico dai tempi dell’Accademia, Sperandeo, Lorenza che è come una sorella. Rispetto la tv per questo non ne faccio molta, mi butto quando ho un’idea e riesco a sorprendermi».
C’è un grande lavoro sulla lingua, e sui soprannomi dei boss: come nascono?
«Libri antichi, storie, è un modo molto meridionale di segnare l’appartenenza. Nella ricerca ho letto cose che voi umani non potete immaginare: ci sono le processioni che si fermano davanti alla casa. Tutto. Però è stato divertentissimo inventare quei nomi».
Parliamo un po’ dell’Italia.
Come la vede?
«Dobbiamo proprio? Io sono figlio dell’immigrazione: i miei genitori hanno dovuto abbandonare il loro paese del Sud per rifarsi una vita. Mio padre ha vissuto da solo per un anno perché non trovava nessuno che gli affittasse casa, essendo meridionale. Questa è stata la sua vita. Mi sembra che la storia si ripeta».