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 2018  ottobre 02 Martedì calendario

Intervista a fra Diego Dalla Gassa: «Ero un parà della Folgore. In Somalia sono stato folgorato»

Il telefono squilla a vuoto all’ora fissata per l’intervista. Può sembrare strano, in un luogo consacrato alla preghiera come è il podere del Getsemani a Gerusalemme, che il responsabile del Romitaggio, fra Diego Dalla Gassa, non risponda. Non lo è, perché qui accade sempre qualcosa di imprevisto. Alla fine, eccolo. Quarantacinque anni compiuti a settembre, fra Diego ha iniziato il percorso per diventare francescano a ventitré: «Conosco molti che hanno avuto rivelazioni, sogni. Non sono tra costoro. Nella mia vita ci sono state persone, incontri». Prima era stato soldato a Mogadiscio, in Somalia, con la missione Restore Hope, partito nell’anno di leva «perché attirato dai soldi che si potevano guadagnare». Ma qui siamo già molto avanti nella storia.[
Come e dove tutto è iniziato?
«Sono il quarto di cinque figli di una semplice famiglia veneta. Quando avevo tre anni, il mio babbo è stato colpito da ictus che lo ha paralizzato al cinquanta per cento. È come se il tandem della nostra famiglia avesse forato la ruota. Mia madre dovette cercare un lavoro e noi ci appoggiavamo un po’ come si poteva da parenti e vicini. Qualche strada si aprì grazie a persone generose, altre le ho aperte io. Sono cresciuto come un discolo, nonostante le raccomandazioni e la fatica che vedevo nel volto di mia madre».
Crescendo, durante l’adolescenza, è cambiato qualcosa?
«In chiesa andavo e portavo i miei amici, ma con il palloncino per fare le pernacchie, così il parroco ci ha buttato fuori più volte. Ero un ragazzotto di piazza, un uomo che non deve chiedere mai, chiamavo chi frequentava la chiesa magna-dormi o basa-banchi. Capelli lunghi, discoteche, fondotinta, la matita per fare colpo sulle ragazze. Scelsi di fare Taekwondo, un’arte marziale coreana. Entrai nella squadra agonistica veneta. Poi arrivò il tempo del militare».
Com’è finito nei paracadutisti?
«Feci domanda nel corpo dei carabinieri, ma mi scartarono. Allora scelsi l’affascinante basco rosso della Folgore: i parà. Andai a Pisa e a Livorno. Era il periodo in cui il contingente italiano era coinvolto nell’operazione Restore Hope in Somalia». 
Così siamo arrivati a Mogadiscio. Poi il cambio di vita drastico, almeno in apparenza. Come accade che un militare, paracadutista, che spernacchiava i parrocchiani in chiesa, arrivi a essere frate, e in un luogo dedicato al silenzio e alla preghiera come il Getsemani?
«Sono passato dalla cintura nera di Taekwondo al cordone bianco sul saio da frate».
Appunto, una rivoluzione totale.
«Il passaggio dall’esterno può sembrare drammatico ma se noi pensiamo che Dio parla quando le cose stanno bene in ordine... spesso è il contrario. Dio mi ha parlato in una situazione di oscurità, di aggressività, durante la guerra in Somalia. L’anno di leva e il servizio militare per me sono stati importanti. Ero andato per interesse, per soldi, e mi sono trovato a guardare il cielo di Mogadiscio davanti a fatti che mi raccontavano il limite umano, della vita, della giustizia. Tutto questo mi ha condotto a una serie di domande».
E quali sono queste domande?
«Una, essenzialmente. Ci sarà qualcuno in cui posso investire tempo, affetto, intelligenza, fisicità e che non mi deluda? Tutto questo è rimasto lì come un grande interrogativo a cui dare risposta. Tutte le grandi domande hanno bisogno di grandi risposte e richiedono tempo».
È successo qualcosa di particolare in Somalia che l’ha smossa dentro?
«No. Anzi, mi mettevo anche a prendere il sole, però ero già incuriosito dal Vangelo. Ricordo che avevo iniziato a leggere Matteo, il primo evangelista, e mi aveva colpito la regola d’oro: Fai all’altro ciò che vorresti fosse fatto a te».
Ha deciso di mettere in pratica la regola aurea?
«Sì, con un ragazzo che di primo acchito mi era antipatico perché lo vedevo sorridere, vestito bene. Sono sceso al ristoro e c’era lui, solo in un angolo. Non mi piacerebbe fosse fatto a me, ho pensato. Allora gli ho chiesto se potevo presentarmi. L’ho conosciuto ed era simpaticissimo. Così ho pensato: è proprio vero il Vangelo».
Ma questo Vangelo da dove arrivava? Gliel’hanno dato a Mogadiscio?
«L’avevo portato da casa, come forma di protezione, che in realtà nascondeva un desiderio ancestrale di approfondire. Avevo 19 anni. Questo mi portò a volere cambiare e a parlare sotto il cielo di Mogadiscio a un mio compaesano che era scout. Quando sono tornato a casa, sono entrato a far parte di quelli che io chiamavo mangiaparticole, baciabanchi, bigotti, cioè un gruppo scout, da cui nacque una pratica cristiana religiosa che tentava di mettere in pratica quel Vangelo. Rimaneva quella domanda».
Ragazzotto di diciannove anni, cintura nera, paracadutista. Era anche fidanzato?
«Sì, avevo il sogno di diventare marito e padre di cinque o sei marmocchi e trascinai dentro gli scout anche la ragazza. Grazie alla nostra esperienza di militari, mia e del mio commilitone di Mogadiscio, il nostro gruppo decise di andare in Albania per partecipare a Volo d’aquila dell’Azione cattolica. Lì ebbi un altro contatto con un paese povero ma ero con un’altra veste».
Che cosa le ha lasciato l’esperienza in Albania?
«Ho visto il segno della dittatura comunista, che aveva intaccato lo spirito delle persone. Ho sperimentato il contatto con un altro mondo, un altro modo di essere povero rispetto a quello che avevo visto in Somalia, e questo mi ha portato a riflettere. Di ritorno dall’Albania, un mio amico mi disse: Devo andare ad Assisi, vieni con me. Era in crisi esistenziale: lui adesso è sposato e io sono frate».
Assisi è stato il luogo della chiamata alla vita in saio, sembra di capire...
«Partimmo il primo gennaio. Dopo due ore di sonno gli ho chiesto: ma che cosa c’è ad Assisi che ne parli come l’America? In macchina c’era un libro: Visitiamo Assisi con lo spirito di san Francesco. Ho chiesto al mio amico: ma san Francesco non è in America?». 
Da San Francisco a san Francesco il passo è stato breve?
«Ad Assisi la guida, scritta da un frate, consigliava di partire dalla Porziuncola, culla dell’ordine: Fermatevi e chiedete il dono della presenza di Francesco per guidarvi nei luoghi santi. Quel giorno mi sono messo in Porziuncola dalle 10.30 alle 11.30, per la prima volta a pregare. In Francesco trovai la risposta a questa mia grande domanda. Rimasi meravigliato di come lui aveva vissuto le cose che io avevo vissuto».
Quali esperienze di vita comune ha avvertito di avere con san Francesco?
«Lui era un ragazzo di piazza, grande sognatore, che vuole diventare cavaliere e va in guerra. È come se si fosse avvicinato e mi avesse detto: So che cosa vuole dire avere paura, conosco la delusione e anche la via. Il mio amico al ritorno mi provocava: Ti vedrei bene frate. Io gli rispondevo: Ma sei scemo?. Poi sono entrato tra i frati della Provincia del Veneto».
Adesso è a Gerusalemme, al Getsemani, il luogo frequentato da Gesù con gli Apostoli, dove lui si ritirò in preghiera prima della passione, mentre Pietro, Giovanni e Giacomo dormivano...
«Il sogno dell’altra cultura, della diversità che non è l’Italia, mi era rimasto dentro, ma è tornato solo dopo la formazione, dopo essere stato ordinato diacono e sacerdote. Dopo, il Signore si è ripresentato con il sogno di aiutare l’altro e con il desiderio di venire in Terra Santa. Presentai la domanda, affrontai non poche resistenze, eccomi qui. Mi chiedevano: Come mai, non ti basta quel che stai vivendo qui con noi?». 
Lei che cosa ha risposto? Perché non le bastava la vita che aveva?
«Non volevo avere tenuto il mio sogno nel cassetto. Mi diedero il permesso di verificare e tre anni di tempo. Era il 3 ottobre 2010, il Transito di san Francesco, e mi sono sentito accompagnato. Dopo un primo anno di conoscenza dei luoghi santi e di studio, ho avuto l’opportunità di venire al Romitaggio per mettere le mani in pasta e conoscere la Terra Santa da dentro. Io dissi: Che bello, vado in luogo dove si prega. E padre Pizzaballa, attuale arcivescovo e amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, che allora era il Custode, mi rispose: È anche un luogo dove si lavora molto. Dopo due anni avevo già maturato che era il posto in cui il Signore mi chiamava. È un grande dono spendere la vita nel luogo dove il Signore è vissuto. Così mi sono trovato dentro una realtà in cui ci sono contraddizioni e contese, ma in vesti diverse: non più come soldato ma come servo di Cristo». 
Pensa che l’anno di leva sarebbe utile? Lo proporrebbe per tutti?
«La mia esperienza non è il paradigma per tutti, perché ad alcuni il militare serve e ad altri no. Tutta la vita può diventare un insegnamento, non solo il militare. Ho sentito però le voci di chi sostiene che i militari devono essere professionisti. È vero, ma l’anno di leva può essere positivo per crescere nella maturità umana e sociale, perché il rischio dei nostri ragazzi è protrarre l’adolescenza fino a trent’anni in casa. Uscire dalla propria casa, instaurare relazioni nuove, obbedire a qualcuno, porta la persona a capire che la vita è fatta così, che non sempre tutto quello che vuoi fare va bene. È giusto accogliere chi ha fatto esperienza prima di te. Come diceva Bobbio, se sono diventato grande è perché mi sono appoggiato sulle spalle dei giganti. La nostra sapienza sta nell’affidarsi a chi ha camminato prima di noi: si chiama tradizione».
Come vive ciò che accade in Israele e le difficoltà di convivenza tra popoli, culture e credo diversi in Terra Santa?
«Noi francescani siamo chiamati a essere una mediazione, cioè a guardare non solo chi ci piace, non solo i cristiani ma l’uomo in sé. Siamo chiamati a essere una mediazione per l’umanità che ha amato Gesù. Lui è il nostro Maestro. Se istintivamente ci viene da stare dalla parte del povero, perché è afflitto, vive l’ingiustizia, dall’altra siamo chiamati a stare di fronte a chi impone delle regole. Stiamo con tutti ma come mediazione, come segno che cerca di guardare oltre l’atto in sé».
Com’è la vita del Romitaggio e che effetto fa alle persone che vengono qui in ritiro, in preghiera o anche solo in visita?
«È uno dei luoghi più santi sulla faccia della terra per la cristianità. È il luogo dove il Signore ha detto il suo sì al Padre e all’umanità: Non sia fatta la mia volontà ma la tua, restate qui e vegliate. Il senso della nostra missione è restare qui e permettere che il desiderio di Gesù sia accontentato e sfamato. Così sono al servizio di questo podere chiamato Getsemani in cui accogliamo le persone che vogliono vivere un momento per stare vicini al Signore, che può durare un’ora o una settimana».
Non vi manca il contatto con le persone che vivono una quotidianità per così dire ordinaria in questi luoghi?
«Il contatto con la realtà non è così evidente perché noi siamo fermi e il mondo viene qui: vengono da tutto il pianeta, ogni tipo di persona. Abbiamo anche amici musulmani che arrivano qui, magari per una toccata e fuga, e trovano pace. Abbiamo accolto anche israeliani in ricerca. Ci sono altri luoghi santi in cui la vita è un po’ differente: come Betlemme, Nazaret e Giaffa, o in Siria Aleppo o Damasco, dove si toccano nella carne il conflitto e il contatto con la realtà di questa terra. Ma percepiamo che la nostra missione è pregare e raccontare la passione di Gesù che qui ha vissuto. Si compie una frase che Francesco amava dire: Vorrei percorrere le via del mondo piangendo la Passione del mio Signore. Qui accade il contrario: noi siamo fermi nel luogo della Passione e il mondo percorre questo luogo».
Si sente approdato in un luogo definitivo?
«Il luogo definitivo è la Terra Santa».
Le capita di ripensare con nostalgia al passato e alla Somalia? 
«Quando sei innamorato, l’attrazione è più forte e ti fa lasciare altre cose. Sei trascinato, è l’amore che ti muove. Ora vado perché devo finire di impastare il cemento».