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 2018  ottobre 01 Lunedì calendario

Effetto Trump ,il petrolio prova l’arrampicata ai 100 dollari

«Stiamo entrando in un periodo cruciale per il mercato petrolifero». Se lo dice l’Aie, l’Agenzia internazionale per l’energia creata nel 1974 dopo il primo choc generato dai prezzi del greggio, c’è da crederle. D’altra parte, anche a un occhio poco esperto non sfuggirebbe quel concentrato di criticità che si stanno addensando, come nubi minacciose, sull’oil market. Sono le stesse che hanno portato JP Morgan ad alzare drasticamente le proprie previsioni sulle quotazioni del Brent, destinata a salire fino a 90 dollari il barile (dai circa 82 degli ultimi giorni) entro i prossimi sei mesi contro una stima precedente di 60 dollari. 
Lo scarto è enorme, e apparentemente non motivato da una domanda mondiale totale di petrolio che nel 2019 dovrebbe superare per la prima volta i 100 milioni di barili giornalieri. Così almeno sostiene l’Opec per puntellare la tesi secondo cui il mercato sarebbe ben rifornito. E, dunque, anche per giustificare la mancata decisione di aumentare la produzione durante il recente vertice di Algeri nel format Opec+, ovvero quello allargato anche ai Paesi produttori esterni al Cartello. Il mantenimento dello status quo ha mandato su tutte le furie Donald Trump, tornato ad accusare i Signori del petrolio di mantenere artificialmente alti i prezzi. L’inquilino della Casa Bianca vorrebbe essere più ascoltato da un alleato storico come l’Arabia Saudita, il membro più influente dell’Opec. Ma Riad, che continua a litigare con i propri conti pubblici al punto da dover ricorrere all’emissione di bond di importo ciclopico, non pare intenzionata a prestargli orecchio. E, d’altra parte, il tycoon è per buona parte responsabile dell’attuale tendenza rialzista dei corsi petroliferi (Brent oltre gli 81 dollari, Wti sopra quota 72 dollari). La decisione di inasprire le sanzioni contro l’Iran, destinate a entrare in vigore il prossimo novembre, è alla base delle stime che non escludono un picco fino a 90 dollari dell’oro nero. Finora, gli analisti avevano ragionato sui circa 500mila barili al giorno di Teheran che sarebbero stati sottratti dall’offerta a causa delle ritorsioni Usa. Questo ammanco poteva essere compensato dal maggior output degli altri soci Opec, come peraltro già successo negli ultimi mesi. L’Iran sta infatti già subendo i contraccolpi del primo round di sanzioni americane. Secondo l’Aie, la produzione di greggio del Paese mediorientale è scesa in agosto di 150mila barili giornalieri rispetto a luglio, al minimo da 25 mesi, con 3,63 milioni di barili prodotti; le esportazioni sono scese di 280mila barili a 1,9 milioni di barili, dal massimo di circa 2,5 milioni di barili toccato in maggio. Ma ora che Trump ha alzato il tiro la situazione è destinata a peggiorare drasticamente. Dal mercato rischia infatti di sparire oltre un milione di barili iraniani, e lo sforzo supplementare di capacità produttiva da parte dei Paesi del Cartello potrebbe non bastare. «Il principale colpevole dell’aumento dei prezzi del petrolio e la causa principale di questo rialzo e delle turbolenze del mercato sono Mr. Trump e la sua illegale politica di destabilizzazione», ha dichiarato qualche giorno fa il ministro iraniano del Petrolio, Bijan Namdar.
Al momento, l’Opec non ha messo in agenda un vertice straordinario per discutere la questione. La prossima conferenza resta fissata per il 6 dicembre, mentre i giorno dopo ci sarà l’incontro Opec+. Ma resta da vedere se questo approccio morbido, che sembra voler escludere un’emergenza imminente, durerà per i prossimi due mesi. Anche perchè ci sono altri due fronti aperti: la situazione in Venezuela potrebbe deteriorarsi ancora più velocemente, e la Libia sprofondare nel caos se non dovesse reggere il cessate il fuoco. 
Altri due fronti caldi, insomma, che possono provocare un ulteriore deficit dell’offerta nonostante la crescente produzione di shale oil statunitense. Il rischio, infine, è che le tensioni sui mercati petrolifere possano raggiungere l’apice proprio mentre infuria la guerra sui dazi tra Usa e Cina provocando un rallentamento dell’economia mondiale. O, nella peggiore delle ipotesi, una recessione globale.