L’Economia, 1 ottobre 2018
Mediobanca senza patto sarà più public company
Con l’uscita a sorpresa dell’«accordo per la partecipazione al capitale» comunicata da Vincent Bolloré nei giorni scorsi per Mediobanca tramonta l’epoca dei patti di sindacato. Non solo perché la percentuale rimasta vincolata (il 19,3%) è inferiore alla soglia minima prevista e l’intesa decade, ma anche perché nel caso gli azionisti decidessero per un rinnovo, si tratterebbe di un accordo leggero, non più di blocco e l’ultimo per l’istituto. È logico dunque che il mercato si interroghi sui possibili scenari per la banca indirizzata verso il modello di public company e per la sua principale partecipazione, il 13% di Generali, destinata a scendere al 10% entro il prossimo giugno.
Progressive riduzioniIl capitalismo italiano ci ha già abituato al tramonto dei patti. E anche nella stessa Mediobanca il peso della quota vincolata è da anni in progressiva riduzione, processo guardato con favore dal management perché considerato coerente con la crescita del business liberando flottante e favorendo l’ingresso di investitori istituzionali italiani e internazionali che già oggi detengono il 40-45% del capitale. Tuttavia la prossima fine di «questo» patto, il 31 dicembre del 2018 o del 2020, che gli analisti guardano in termini di aumento dell’appeal del titolo, rappresenta comunque una pagina storica: è l’accordo più longevo e il suo architetto, Enrico Cuccia, è stato (come si direbbe oggi) l’«archistar» di un sistema che per decenni si è sostenuto su patti di sindacato, partecipazioni incrociate e presenze multiple nei consigli. Sistema che non ha retto all’apertura internazionale dei mercati, alle nuove regolazioni, alle necessità di capitali dopo le crisi finanziarie ed economiche che hanno compromesso la tenuta dei network e reso obsolete le vecchie modalità con le quali si è basata per lungo tempo l’interpretazione italiana del modello renano di capitalismo.
Quasi a voler rendere più efficace la narrazione, l’uscita del francese Bolloré che sancisce il tramonto del patto di Mediobanca si configura come la chiusura di un cerchio. Il primo accordo per la partecipazione del capitale dell’istituto, che risale al 1958, 10 anni dopo la costituzione della banca e due dopo la sua quotazione in Borsa, nasce da uno scambio di lettere fra Cuccia e il francese André Meyer, il «mitico» banchiere di Lazard legato al fondatore di Mediobanca da una solida amicizia. Nelle missive vengono comunicati l’interesse francese a un ingresso nel capitale dell’istituto italiano, e il progetto di costituire per Mediobanca un sindacato azionario nel quale prendano parte anche alcuni istituti stranieri «selezionati». Nasce così il primo patto di sindacato che raccoglie le tre Bin (Comit, Credito italiano e Banca di Roma) con il 51%, quattro istituti internazionali, Lazard, Lehman brothers, Sofina e Berliner handels gesellschaft, e l’investitore privato Pirelli & C. Il capitale vincolato è pari al 55%.
A questa quota si tornerà diversi anni più tardi, dopo che con la privatizzazione di Mediobanca nel 1988 le azioni vincolate erano scese al 50% (25% le Bin, 25% privati come Fiat, Generali, Pirelli, Ras, Olivetti, Cir, Italcementi, Fondiaria, Marzotto, Lazard e diversi altri). Ed è proprio con l’ingresso degli investitori esteri soprattutto d’Oltralpe guidati da Bolloré (già presente indirettamente nel sindacato) che nel 2003 la partecipazione vincolata risale al 57%. Da allora però il patto «dimagrisce». Soprattutto in seguito ad alcune disdette, come quelle di Fiat e Telecom, e alla fusione Unicredit-Capitalia che comporta la cessione di oltre il 9% di Mediobanca, la percentuale si riduce intorno al 40% e quindi al 30% nel 2013 dopo le uscite di Unipol-Fonsai, Generali, Groupama e in parte di Italmobiliare.
Si arriva così a oggi. Con la previsione che l’istituto diventi una public company il cui primo azionista, Unicredit con l’8,4%, ha collocato la partecipazione, una volta strategica, fra quelle finanziarie; e il secondo, Bolloré con il 7,8%, più impegnato su altri fronti. La marcia verso la public company è stata accompagnata da una radicale revisione del modello di business, con l’addio alla holding di partecipazioni e la concentrazione sull’attività core bancaria, e dall’adesione a una governance aderente alle best practice internazionali. La banca guidata da Alberto Nagel ha operato questo cambiamento (che nell’ultimo bilancio si è tradotto in record di ricavi a 2,4 miliardi e di utile operativo a 1 miliardo con masse legata allo sviluppo del wealth management a 40 miliardi) attraverso i piani industriali e le riforme statutarie e si può dire che il tramonto del patto sia coerente con l’evoluzione voluta dal «nuovo corso» e i progetti del management. Evoluzione che per quanto riguarda il governo societario, secondo le raccomandazioni del consiglio dovrebbe portare all’adozione del monistico, guardato con favore da mercati e authority, e all’applicazione di quanto previsto da tempo nello statuto: per il rinnovo del consiglio nel 2020 sarà il board uscente e non il patto (eventuale) a presentare la lista.
Attenzioni esteseDopo la mossa di Bolloré l’attenzione si è subito estesa anche alle Generali. La compagnia guidata da Philippe Donnet in novembre presenterà il nuovo piano strategico e l’anno prossimo rinnoverà il consiglio con la sostituzione, in linea con lo statuto, del presidente Gabriele Galateri. Tutto ciò in teoria potrebbe favorire il rinnovo di un «pattino» in Mediobanca, ma sono da tenere in considerazione due cose: l’autonomia del management dell’istituto e l’evoluzione dell’azionariato di Generali. Mediobanca, che anche alla luce del rafforzamento patrimoniale di Generali negli anni più recenti si aspetta un piano di sviluppo e crescita che porti a un aumento della redditività, presenta la lista di maggioranza a Trieste che storicamente è stata votata anche da alcuni azionisti stabili: Del Vecchio, Caltagirone, De Agostini, Benetton, che insieme detengono il 12-13% del Leone. Il ruolo dell’istituto, anche dopo il calo previsto della partecipazione al 10%, è centrale e i componenti il nocciolo, pur nel dialogo permanente, appaiono condividere una prospettiva di soci di lungo periodo.