La Stampa, 1 ottobre 2018
Metamorfosi di un ministro del Tesoro
Una settimana in politica è un’eternità. In meno di una settimana, il ministro Tria è stato retrocesso da guardiano della stabilità delle finanze pubbliche a ragioniere di Di Maio e Salvini. Il Def non solo prevede un aumento del disavanzo nel 2019, ma disegna un percorso per cui esso rimarrà invariato per tre anni. Presi con le mani nella marmellata, abbiamo perso anche il pudore di promettere che ci metteremo a dieta. Mattarella ha usato parole dure e ha richiamato la necessità del rigore di bilancio, coerentemente con quanto prevede la Costituzione amatissima, a parole, dal Movimento Cinque Stelle.
Tria stesso, in una intervista al Sole 24 Ore, ha cercato di correggere la rotta. Ha escluso le dimissioni, ha elogiato i funzionari del Tesoro e soprattutto ha avanzato l’ipotesi di una «clausola di salvaguardia» fatta non sul lato delle entrate (i famigerati aumenti dell’Iva) bensì sul lato della spesa: tagli che bilancerebbero gli eventuali ammanchi. L’idea è di ammirevole buon senso. La difesa dell’obiettivo di deficit, da parte del ministro, si basa però su un quadro di «rilancio della crescita» poco realistico. Il clima in Italia è ogni giorno più ostile nei confronti della libera impresa. La quale può anche non piacerci, ma è difficile immaginare di crescere senza, o contro, di essa.
Se Tria esce fortemente ridimensionato dalla vicenda del Def, chi può prenderne il posto come garante dei conti pubblici? Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti ha posizioni non molto diverse. Ma sia Tria che Giorgetti sono persone sobrie e appartate, con scarsa presa sul grosso pubblico; i loro interlocutori sono due pop star all’apice del consenso personale.
Non si può fare politica senza fare politica. Indipendentemente dai loro meriti, i «tecnici» sono destinati a soccombere davanti a chi, sedendosi al tavolo, può sostenere di parlare a nome del 60% degli italiani. Beninteso: a nome del 60% degli italiani si possono fare cose tremende al restante 40% e pure a quel 60%, e questo pare essere precisamente il piano dei due vicepremier. Tuttavia la forza della loro posizione è un fatto e come tale va presa.In questa situazione, cresce il peso sulle spalle del Presidente della Repubblica. Il presidente si richiama all’articolo 81 che anche nella formulazione originaria, dovuta a Einaudi e Vanoni, implicava il pareggio di bilancio. Fatto sta che sia prima che dopo la riforma del 2012 il dettato costituzionale è stato allegramente ignorato.
Che può fare Sergio Mattarella? I disegni di legge di iniziativa governativa devono essere autorizzati dal Quirinale. L’obbligo può essere aggirato, facendo presentare il medesimo ddl da un parlamentare. Tranne che in un caso: la legge di bilancio.
Un Presidente che non autorizzi la legge di bilancio significherebbe uno scontro fra poteri senza precedenti. Potrebbe però accompagnarla con un messaggio al Parlamento: strumento non dei più efficaci, soprattutto se Camera e Senato non brillano per senso delle istituzioni.Il guaio è che ogni rilievo di carattere formale oggi rafforza la narrazione cara ai due vicepremier: da una parte i beniamini del popolo dall’altra le grisaglie dell’establishment.
Le finanze pubbliche non saranno al sicuro fin quando al consenso a favore delle spese pazze non si opporrà un consenso diverso. La domanda di serietà può forse venire dagli elettori del Nord e della Lega, i quali per ora non mostrano grandi inquietudini.
In questo contesto, il Presidente della Repubblica ha molti vincoli ma anche un vantaggio. È l’uomo politico più apprezzato del Paese. Perché le persone si accorgano di problemi e pericoli di cose arcane come le politiche di bilancio, bisogna che qualcuno glieli spieghi. Qualcuno di cui si fidano.