Uno dei primi effetti è la fuga di tutti gli immigrati messicani, terrorizzati da ritorsioni xenofobe, ma ciò che sta a cuore all’autore è l’intimità dolente dei personaggi e il loro anelito di una serenità che sembra negata dall’esistenza. Sono struggenti, e molto ben delineati, i personaggi del padre Jed, che scivola gradualmente nell’alcolismo, e della madre Eve, che cerca di mantenere un atteggiamento solido di fronte al dramma. Non meno affascinanti il fratello Charlie, che decide di trasferirsi a New York, senza trovare pace, e Rebekka, l’amore adolescenziale di Oliver. La situazione sembra cambiare quando il cervello del protagonista dà improvvisamente segni di vita… «Un segnale di vita in qualcuno considerato un vegetale è un segno di speranza», racconta lo scrittore nel suo appartamento di Brooklyn, «ma il senso del libro si può comprendere solo se si parte dal dolore. Viviamo in una società che tende a rimuoverlo».
Da dove nasce l’idea originaria di questo romanzo?
«Da qualcosa che ho vissuto in prima persona: lo shock e l’angoscia di fronte a una serie di suicidi che avvennero nel mio liceo. Morirono diciotto ragazzi e il consulente scolastico. La mia scuola era simile a quella descritta nel libro, come anche a Columbine. Lo stesso si può dire della cittadina in cui sono cresciuto, chiamata Piano: un luogo simile a migliaia di altri in America. È stato un periodo terribile, che mi ha segnato per sempre: mi trasferii per sei mesi ad Austin, tentando di marcare un po’ di distanza da quell’orrore».
Che idea si fece di quei suicidi?
«Ancora non sono riuscito a trovare una risposta chiara: depressione, disperazione, solitudine, angoscia, ribellione all’idea stessa della vita».
La violenza è qualcosa di radicato nello spirito americano?
«La risposta è: sfortunatamente sì. Ma ovviamente è necessario ragionare ed elaborare. L’America è giovane e individualista, ed è caratterizzata da un’energia unica: la violenza è la degenerazione di questi elementi positivi. Non si può neanche dimenticare che una parte della popolazione è stata portata qui in catene, da parte di mercanti provenienti dalla nobile, colta e raffinata Europa. Purtroppo questa violenza persiste anche oggi, all’interno di un Paese che è diventato molto più sofisticato».
La descrizione di Oliver sembra un autoritratto: "La mascella pronunciata di tuo padre e gli zigomi alti di tua madre".
«Mi è difficile negarlo, ma ci sono elementi intimi anche nel personaggio di Charlie, il fratello che, come me, si trasferisce a New York. Nel libro ho tentato di dire molte cose anche sulla nostra società, e ho sentito la necessità di rimanere vicino a me stesso.
Rebekka, ad esempio, è la rappresentazione delle ragazze che a quell’età non erano interessate a me: almeno nel romanzo ho voluto che lei, invece, lo fosse».
Perché ha scritto il libro in seconda persona?
«In una prima stesura era in prima persona, ma sentivo che c’era qualcosa che non funzionava: è stata Zadie Smith a suggerirmi di lasciarlo decantare per almeno tre mesi. Credo che il cambio di prospettiva lo renda più universale e che per il lettore sia interessante chiedersi chi stia scrivendo».
Nel finale del romanzo emerge un atteggiamento di pietà e perdono.
«Ritengo che sia l’unica possibilità di redenzione rispetto al dolore dell’esistenza. E credo nel valore del sacrificio, qualcosa che ai giorni nostri sembra inconcepibile».
Tuttavia, nei suoi libri pieni di dolore, l’ironia non manca mai…
«Io lotto per la felicità e mi considero un ottimista. E diffido di chi non conosce l’ironia».
Uno dei personaggi più ambigui è Eve, che ha il nome della prima donna.
«La vedo come la personificazione dell’amore estremo. E non nego quello che evoca il nome. Quando l’amore porta a degli eccessi forse non è più amore».
Perché nei suoi libri compare sempre la malattia?
«Per quanto riguarda le malattie mentali, oltre a episodi dolorosi che ho conosciuto da vicino, c’è un dato personale: mio padre è uno psichiatra. Invece per la malattia in genere ritengo che sia qualcosa impossibile da ignorare: un elemento fondamentale della nostra esistenza, che segna la nostra fragilità ed è da stimolo alla nostra possibile grandezza».