la Repubblica, 30 settembre 2018
Quando ai festival vincono le donne
Esistono due tipi di festival a cui può capitare di essere invitate se di mestiere si scrive: ci sono quelli considerati generalisti perché si rivolgono a tutti, ma nei cui programmi le firme maschili sono il novanta per cento, e poi ci sono quelli che vanno sotto l’etichetta di “festival di letteratura femminile”, dove le donne invitate sono la totalità e il pubblico la rispecchia.
Ai primi inviti di solito rispondo facendo notare – come capitato di recente per il ciclo di tre incontri al museo Maxxi di Roma, promosso dalla Fondazione Bellonci, con tutti uomini a parlare sulla bellezza del mestiere di scrivere – che continuare a rappresentare l’autorevolezza culturale come un dono collegato al solo genere maschile è noioso, discriminatorio e esteticamente sgraziato. A volte ne nasce un dibattito utile, ma più spesso gli organizzatori alzano le spalle come a dire:” Ecco un’altra femminista rompiballe che vuole le quote rosa”. Non sbagliano.
Le quote rosa costringerebbero lo sguardo sociale ad andare nella direzione dove l’abitudine e il pregiudizio non si voltano mai.
Dove esistono, servono alla parità di genere tanto quanto la legge Sirchia sul fumo serviva ai non fumatori: attaccano il dislivello di potere che crea la discriminazione. Lo fanno in modo coercitivo e questo non piace a nessuno, alle donne per prime, ma la ragione di questa forzatura è evidente: chi detiene un privilegio non lo cede mai spontaneamente, deve esserci costretto.
Vorremmo tutte che questo non fosse un mondo dove è ancora necessario costringere qualcuno a riconoscere la nostra esistenza, la nostra competenza e la nostra autorevolezza, ma se questa è la situazione, allora la risposta non può che essere commisurata. Ma questa risposta non sono gli inviti ai festival di letteratura femminile. Quando li ricevo li cestino direttamente con cordialità, perché sono ghetti dove si perpetua la convinzione che la scrittura delle donne sia un sottogenere letterario della letteratura vera, quella – ça va sans dire – fatta dagli uomini. Su un fronte o sull’altro regge il pregiudizio per cui le donne siano portatrici essenzialmente di “donnitudine” e solo in seconda battuta di quel briciolo di capacità letteraria che una volta ogni dieci anni, almeno per buon gusto, può essere riconosciuta senza portare via niente a un uomo.
Per capire quanto il pregiudizio sia radicato basta leggere i giornali: quest’anno a vincere i principali premi letterari italiani sono state due autrici, Helena Janeczek e Rosella Postorino, e le pagine culturali hanno titolato che “Lo Strega è donna” (nel caso della vittoria di Janeczek) e che “Il Campiello premia il talento femminile” senza realizzare che titoli di questo genere rivelano la convinzione che quando vince un uomo vinca la letteratura, mentre se vince una donna – e Repubblica ha fatto un editoriale in prima pagina per denunciarlo – a trionfare è la femminilità. Contro questa sconfortante barriera le donne che scrivono devono lottare tutti i giorni, ma anche quelle che leggono non hanno vita semplice.
Nelle librerie persistono scaffali in cima ai quali signoreggia l’assurda etichetta” letteratura femminile”, sintesi pigra per quei romanzi rosa che molti credono essere il solo interesse delle lettrici. Niente di più falso, considerato che l’intero mercato editoriale italiano esiste perché a leggere sono le donne e i bambini, al punto che gli editori sanno che un libro è davvero un successo solo quando a leggerlo ci arrivano anche i maschi.
Sarebbe considerata letteratura femminile Anna Frank e il suo Diario
del nazismo? O Marguerite Yourcenar e le sue Memorie di Adriano? Difficile dirlo in un mondo dove i giornali, i librai e talvolta gli stessi scrittori si ostinano a credere che gli uomini parlino di tutto e le donne solo di sé stesse (in amore).
In questo scenario ci sono pochissime eccezioni e una è il festival” Inquiete”, piccolo ma sfolgorante per modalità e progetto, dove un gruppo di donne giovani e tenaci è riuscito a creare uno spazio in cui le capacità delle donne invitate non sono talento femminile, ma talento e basta. Le donne hanno il dovere e il diritto di dirsi protagoniste nel mondo. Benedetto il luogo in cui possono farlo affermandosi come parte della norma, non come la nobile eccezione che la conferma.