Il Messaggero, 30 settembre 2018
Il Rhinoceros di Jean Nouvel
«Ogni finestra è una domanda», dice Jean Nouvel. E da quassù è un bell’interrogarsi: apri e vedi il Circo Massimo, Sant’Anastasia, il tempio di Ercole Vincitore, di là il Palatino, San Giorgio al Velabro, l’Arco di Giano. Nel mezzo di tanto splendore si erge un palazzo seicentesco che nessuno ha mai visto e che sta prendendo nuova vita grazie all’intervento del visionario architetto francese Jean Nouvel. 73 anni, artefice di progetti in tutto il mondo, dall’Institute du Monde Arabe alla Fondation Cartier a Parigi, dalla Torre Agbar a Barcellona al Museo Nacional Reina Sofia a Madrid, fino al recente Louvre di Abu Dhabi, Nouvel ha appena chiuso il cantiere di Rhinoceros, destinato a diventare la sede della Fondazione Alda Fendi Esperimenti, cittadella della cultura a Roma (il nome è stato scelto perché il rinoceronte all’epoca di Augusto era visto come simbolo di forza). L’inaugurazione ci sarà l’11 ottobre e per tre giorni sarà proprio lui a fare gli onori di casa, raccontando tutto del suo primo progetto romano.
Lei dice che «costruire a Roma è difficile». In questo progetto il suo ruolo pare essere stato anche quello di archeologo o restauratore: la facciata è stata mantenuta, si vedono crepe e vecchie maioliche, perfino scarabocchi. Come ha sviluppato questo mix tra antico e moderno?
«Certo che è difficile costruire a Roma. Io sono un architetto contestuale, amo prendere spunto dal contesto. In questo caso ho lavorato in una situazione estrema, in un luogo impressionante con una storia millenaria, Che però mi ha colpito anche per il suo carattere domestico, espressione di una vita che c’è già stata. Ho lavorato sulle finestre, sul consolidamento dei muri, sulle fessure. Ho trovato un fascino in questo, una sorta di tratto poetico. La poesia è spesso un’arma».
Cosa ha portato di nuovo?
«In questo palazzo bisognava reintrodurre la vita di oggi. Il matrimonio tra l’architettura già esistente e quella contemporanea dà vita a un nuovo dialogo, per questo gli oggetti all’interno sono il più lontano possibile da quelli di prima: i blocchi che contengono tutte le funzioni pratiche dell’abitazione, bagni, cucine, guardaroba sono di acciaio inox lucidato. Tutto è reinterpretato secondo le tecniche di oggi e con un’estetica contemporanea».
È stata una sfida lavorare faccia a faccia con le bellezze dell’antica Roma?
«Dalle finestre del palazzo si osservano le tracce di vestigia antiche, storia interna e storia esterna dialogano. Queste tracce sono servite come pretesto per raccontare una nuova storia. L’immobile sarà un’interpretazione della vita precedente vista attraverso l’attitudine estetica e culturale dell’architettura del 21esimo secolo. Il mio obiettivo è trasformare in modo provocatorio, il fine dell’architettura non è rispondere alle domande ma farle».
A Parigi il grande albero che sorge davanti alla Fondazione Cartier si riflette sulla facciata di vetro. Alla Fondazione Alda Fendi Esperimenti l’illuminazione notturna proietta le ombre degli alberi sul palazzo. Che rapporto c’è per lei tra natura e architettura?
«Innanzitutto io ritengo che anche la natura sia un elemento architettonico. Considerare il contesto vuol dire guardare a tutto ciò che sta intorno, trovo che ci sia un’armonia nata nel tempo, la relazione tra alberi e palazzo dimostra che sono lì da tempo, che sono amici. Comunque io mostro cose che sono già là, familiari, porto ombre su un palazzo vivente e faccio emergere la vita sulla facciata con le luci che arrivano dall’interno. Descrivo il tempo che passa mettendo in valore l’effimero in rapporto con l’eterno».
Lei cita il filosofo della scienza Gaston Bachelard secondo il quale uno spazio è caratterizzato dalla quantità di tempo che ha contenuto. Ma questo come si percepisce?
«Bachelard non parla del tempo in generale, ma della quantità di tempo di vita umana contenuto in un posto. Roma è una città millenaria ricca di storia, cultura, letteratura, raffigurazioni. È evidente che io pensi a questo anche nel
Rhinoceros. Si tratta di un posto che ha già avuto una storia, è per questo che lavoro sulle macchie e sulle fessure reinterpretandole. Non si tratta di una forma di conservazione pittoresca».
Sulle imposte interne delle finestre sono stampate foto che rappresentano i singoli ambienti prima del restauro, qual è il senso?
«È stato difficile lavorare su questo immobile perché non avevamo l’autorizzazione per cambiarlo. Quindi ho lasciato le finestre che erano murate e ho giocato sul paradosso delle differenze create dal tempo, mettendo dietro a ogni finestra un’immagine dello spazio interno prima del mio intervento, che mostra il colore pallido delle pareti, diversi oggetti quotidiani, le vecchie carte da parati. Una testimonianza iperrealista di un luogo che ha avuto una vita precedente.
Il ruolo dell’architetto è quello di creare emozioni: soddisfatto del risultato?
«Ho giocato con le emozioni. Le emozioni erano lì, date dalla vicinanza con un luogo storico impressionante. Questa nuova attitudine può essere sentita come un oltraggio perché non esiste una relazione tra ciò che c’era prima e ciò che c’è adesso. L’ho fatto per provocare, per mettere in evidenza il paradosso della situazione. Quindi direi che si tratta di un’emozione positiva, nata da questo incontro improbabile, quasi astratto».
Com’è stato lavorare con Alda Fendi? Erano vicine le vostre idee su arte e architettura?
«Ho avute molte discussioni con Alda, con Raffaele Curi anche, per spiegare cosa volevo fare: partivo da un punto di vista che loro non potevano immaginare, non ero qui per fare decorazioni. Abbiamo avuto molte sere e cene animate. Ma hanno capito la mia dimensione creativa e anche che c’era un collegamento con le ragioni della Fondazione, nata per parlare di cultura e di arte. Il vero pericolo era cadere in una semplice ristrutturazione benpensante che riconvertisse il tutto».
Un titolo inconsueto per un progetto, ma lei cosa ha in comune con il rinoceronte?
«Questa domanda va fatta a loro, non avrei mai immaginato un nome così. Surrealista ma mi piace. C’è una sorpresa, una forza non convenzionale».
Il suo luogo prediletto di Roma?
«Questa è una città fatta per camminare. Ovunque. I miei posti sono Piazza di Spagna, il Pantheon, i giardini di Villa Medici, Piazza Navona, il Foro. Ma si passeggia dappertutto, scopri sempre qualcosa».
Altri progetti per Roma?
«No, ma se avete qualcosa da propormi, volentieri».