La Lettura, 30 settembre 2018
Dall’olio di ricino all’olio su tela
Il Balilla di Innocente Salvini apre il percorso con il suo sghembo saluto romano, i piedi scalzi, i calzoni corti: avvolta da una luce gialla fortissima, quella mano alzata sembra quasi uno sberleffo, le regole del Premio Cremona erano rigidissime, ma l’arte, a volte, riesce a sfuggire alle maglie strette della dittatura. I contadini di Bruno Amadio sono inquadrati con un taglio fotografico, la trebbiatrice in controluce. La famiglia ritratta da Donato Frisia ascolta attenta il discorso del Duce, riunita in un salotto borghese. Arte fascista, senza dubbio. Voluta per celebrare la dittatura, per cantare i valori di un «novecentismo forte, vigoroso, epico, romano», chiamata a partecipare al premio indetto dal ras di Cremona, Roberto Farinacci, a interpretare una mitologia fatta di camicie nere, colonie estive, mietiture. Ma arte, comunque. A volte di grande qualità, a volte non troppo, altre volte sommessamente ribelle, anche se ci sono voluti oltre 70 anni per capirlo. Arte di propaganda che con la caduta del fascismo è stata dimenticata, ignorata, criticata, in non pochi casi distrutta. Una mostra a Cremona prova a raccontare questa storia.
Si chiama Il regime dell’arte, fino al 24 febbraio al Museo civico cittadino, l’esposizione che raccoglie le opere realizzate per le tre edizioni (1939, 1940, 1941) del Premio Cremona, nato in concorrenza con il più vivace e originale Premio Bergamo del ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, elogio della campagna lombarda come culla dell’orgoglio fascista, campi e sudore. I temi – imposti da Mussolini – furono nel 1939 Ascoltazione alla radio di un discorso del Duce, nel 1940 La battaglia del grano, nel 1941 La gioventù italiana del Littorio. Giuria di livello – tra i nomi Ugo Ojetti, Felice Carena, Anselmo Bucci, Giulio Carlo Argan – e artisti chiamati a lavorare su quadri (di grandi dimensioni) in grado di educare il popolo e illustrare – in modo chiaro, spesso didascalico – la grandezza del Duce. Come Il grano, murale su intonaco di Pietro Gaudenzi (1940), vincitore della seconda edizione del concorso – premio di 50 mila lire – che da solo, dice Vittorio Sgarbi, «basta per riabilitare il Premio Cremona».
Le opere, riunite per la prima volta, sono solo una trentina. Trenta sulle 390 realizzate ex novo per le tre edizioni del concorso, che ebbe una «succursale» ad Hannover (gemellata con Cremona e dove erano emigrati 601 «rurali» della Bassa). Con pazienza e rigore, Rodolfo Bona, che con Vittorio Sgarbi ha curato la mostra, ne ha individuate una sessantina. Alcune in condizioni disastrose, altre ben conservate perché acquisite da consorzi o da privati, altre tagliate (per eliminare le parti «compromettenti») o «riviste» dai loro autori dopo la caduta del fascismo: una delle m adri di Mario Beltrami, dipinta nel 1939, teneva per mano un bambino in divisa da Balilla. Ora la donna afferra una mela. Una fotografia della versione originaria, comparata a quella finale in mostra, rivela con chiarezza l’intervento del pittore. In ascolto di Luciano Ricchetti, vincitore dell’edizione 1939, è stato invece tagliato e venduto a pezzi: cinque i frammenti esposti, tra cui una natura morta.
«Credere, obbedire, combattere», compare sul muro della sezione rurale di Roccaraso in Parla il Duce di Luigi Stracciari, gli abitanti in ascolto nella piazzetta del paese. «In fase declinante, il fascismo cerca nell’arte un rilancio della sua immagine», spiega Bona. Non sempre l’effetto è quello desiderato: «Farinacci vuole il realismo, ma a volte realismo è povertà e miseria, non idillio». Come suggeriscono i contadini di Renato Santini o le figure di Mario Biazzi, pittore anarchico e antiborghese. O i personaggi espressionisti e tragici dipinti da Dilvo Lotti. Sono tele diversissime. Esposte senza intenti nostalgici o apologetici, «solo quello di riabilitare l’arte di quel periodo, senza vergogna». Per chiarire ogni dubbio sulla genesi della rassegna: Bona è stato vicepresidente dell’Anpi di Cremona, il sindaco che ha voluto l’operazione è Gianluca Galimberti, a capo di una giunta di centrosinistra. «Nella sua dura violenza – commenta Galimberti – il Ventennio fa parte della nostra storia e del nostro territorio. Conoscere da dove veniamo e ciò che siamo stati è indispensabile condizione per mettersi con coraggio al servizio di un’idea di società, quella della nostra Costituzione». Certo, il titolo, ispirato ai Discorsi sull’arte nazionalsocialista del Führer, ha fatto discutere, «del resto Farinacci voleva assimilare l’Italia alla Germania nazista anche nella creatività, e per questo il nome della mostra è filologicamente corretto», puntualizza Bona. Aggiunge Vittorio Sgarbi: «Si tratta del primo tentativo assoluto di riabilitare l’arte di quel periodo. Non ha senso nascondere, bisogna raccontare con spirito di verità». E fa riferimento – esplicito – alle mostre Dux, gli anni del consenso, poi rinominata Novecento, allestita nel 2013 a Forlì, e a Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-43 alla Fondazione Prada di Milano da febbraio a giugno 2018 «che, pur essendo splendida, mascherava il regime sotto il titolo».
L’arte del fascismo al di là del fascismo. Con autori, ciascuno portatore di una propria sensibilità, ognuno iscritto al premio per le ragioni più disparate. Qualcuno diventato partigiano come Bruno Bonci, terzo classificato nel 1939 poi comandante della brigata «Monte Amiata» con il nome «Caravaggio» e morto in uno scontro con i tedeschi nel giugno del 1944; altri vigilati speciali, come Ermelinda Calza. Non tutto è imperdibile, ma lo sforzo curatoriale è evidente. Come la forza di alcuni pezzi. È il caso della Maternità di Pietro Gaudenzi (la tela non partecipò al premio, appartiene alla Fondazione Cavallini Sgarbi): la donna beve una tazza di latte che le nasconde il volto, ha in braccio una bambina in fasce, addormentata e bellissima.