La Lettura, 30 settembre 2018
Le 120 versioni di un romanzo prima di essere un romanzo
«C’è una sola scienza al mondo, suprema: – la scienza delle parole. Chi conosce questa, conosce tutto; perché tutto esiste solamente per mezzo del Verbo. Nulla è più utile delle parole. Con esse l’uomo compone tutto, abbassa tutto, distrugge tutto». È questo l’esergo, tratto da un articolo giornalistico del «Vate», che Cristina Montagnani e Pierandrea De Lorenzo hanno scelto per il loro libro intitolato Come lavorava d’Annunzio. Il terzo titolo della splendida collana Filologia d’autore, pubblicata da Carocci e diretta – con Simone Albonico – da Paola Italia e Giulia Raboni, autrici anche dei due precedenti volumi, dedicati rispettivamente a Gadda e a Manzoni.
ParolaIn principio era la parola. Se vogliamo intendere etimologicamente la filologia come «amore per la parola», allora gli scrittori – chi più, chi meno – possono essere sempre considerati filologi. Perché tutto di parole è fatto il loro lavoro, quel lavoro che in molti casi è la loro vita. D’Annunzio, nel suo Libro segreto, ci scherza su: «Ebbene, sì, io sgobbo a prendere titolo di filologo: poiché taluno ammonisce che il gobbo Leopardi verseggiava filologicamente. e quegli medesimo se ne va filologicamente filologando». (A proposito di filologia: la minuscola dopo il punto è una precisa scelta d’autore che qui va rispettata).
Quando si parla di filologia d’autore, s’intende l’autore come soggetto e al tempo stesso oggetto del lavoro filologico. Ci si riferisce, infatti, al lavoro che i filologi di professione fanno per ricostruire quello fatto dagli autori sulle parole dei loro testi: dall’idea iniziale allo stadio finale. Lo studio delle modifiche che un testo subisce nel lungo lavoro che precede l’edizione (o la segue, o prelude a un’edizione che l’autore non poté o non volle realizzare). Un modo per sprigionare l’energia dinamica — lavoro anche in senso fisico, dunque – che è racchiusa sotto la superficie di ogni opera letteraria. S’intitola proprio Come lavorava l’Ariosto il saggio di Gianfranco Contini che nel 1937 inaugura questo nuovo modo di guardare al testo attraverso la «critica delle varianti». Quella che Benedetto Croce definì, sprezzantemente, «critica degli scartafacci».
CartaCome spiegava mezzo secolo dopo Dante Isella – definendo metodi e statuto della disciplina da lui battezzata «filologia d’autore» – minute e abbozzi, redazioni plurime, ripensamenti e autocorrezioni rappresentano dal Medioevo in poi la norma e non l’eccezione. «Si va, per attenerci all’ambito della nostra letteratura, dagli abbozzi autografi delle Rime del Petrarca – ricordava – alle varianti di Ungaretti, di Montale, di Gadda e degli scrittori delle leve più recenti»; fino, come vedremo, ai giorni nostri. In questi casi il filologo è colui che cerca un filo logico – quello di cui il testo (latino textus) è etimologicamente intessuto – nel groviglio delle «carte mescolate».
Già, le carte: i documenti, i testimoni – possibilmente autografi – di questo lungo lavorare (o «capolavorare», come diceva modestamente d’Annunzio) sul testo. Quelle che alcuni scrittori portano sempre con sé, come faceva Leopardi con lo Zibaldone; organizzano maniacalmente, come Gadda con i suoi archivi; talvolta danno alle fiamme per cancellarne la memoria, come Manzoni fece di molti scritti giovanili e – forse – di un «lavoro sulla lingua» che «accorgendosi dopo nuovi studi e nuove meditazioni di esser nel falso, bruciò inesorabilmente» (così il figliastro Stefano Stampa).
Testo «Al di là degli eventi che passano, le Carte durano, ciascuna con la sua minuscola storia e vivono in quella che Borges chiama la nostra “quarta dimensione, la memoria”», scriveva Maria Corti nel suo Ombre dal fondo. Il fondo a cui il titolo allude è il Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei da lei creato nel 1969 all’Università di Pavia e ancora oggi molto attivo. Le ombre sono quelle degli scrittori, che «lentissimamente si muovono tra le Carte come in un loro teatro naturale, dove ci vogliono voci per essere udite nel terzo millennio». Nel frattempo, però, il testo si è via via separato dalla carta. Non più il fruscio che fanno i fogli, ma l’immateriale immagazzinamento informatico prodotto dal battere sui tasti del computer. Lunghe file di file raccolti in cartelle virtuali secondo numerazioni progressive. Tanto che nella stessa Università di Pavia si trova oggi anche il Pad: Pavia Archivi Digitali.
Nel 1983, alla domanda: «Scusi, lei scriverebbe un romanzo con il computer?», tutti gli scrittori italiani interpellati rispondevano di no. Al volgere del millennio anche i più refrattari si sono arresi. Come Michele Mari, per cui Rondini sul filo (1999) è l’ultimo libro scritto su fogli sparsi e ricopiato a mano in bella copia. Poi anche lui è passato al pc: «Pensavo mi viziasse, potendo cancellare e riscrivere velocemente. Invece non è così. Ancora mi fermo alla frase perfetta». In un’intervista del 2002, Aldo Nove diceva di non scrivere più a macchina da almeno quindici anni e di non saper più scrivere a mano. Eppure, su un bloc notes a quadretti, ci sono rimaste – scritte in stampatello – diverse versioni di racconti di Woobinda (alcuni inediti). Il computer, aggiungeva Nove, «influenza il modo di scrivere. Lo stesso fatto che si possa cancellare tutto senza lasciare tracce ha delle implicazioni filologiche stranissime. La filologia oggi non ha più senso, perché non ci sono più i testi».
MemoriaNon è andata così. I filologi oggi possono riflettere sulle scelte di Alessandro Piperno, che in una versione anteriore di Con le peggiori intenzioni strutturava la trama in maniera molto diversa e – in capitoli poi tagliati – portava il suo protagonista a vivere negli Usa. Possono leggere Cronaca della fine di Antonio Franchini in tre differenti stesure (le prime due intitolate ancora Metodo della sopravvivenza di Dante Virgili). Confrontare tra loro la versione diaristica, epistolare e dialogica di Come scrivere un best seller in 57 giorni di Luca Ricci. O 5 redazioni di Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati (nelle prime tre il titolo era Il rasoio di San Lorenzo), valutando anche l’impatto che hanno avuto gli interventi degli editor. E questi sono solo alcuni tra i tanti esempi ricavabili dai materiali conservati presso il Cirtt dell’Università di Cassino. Il problema, per chi intende fare filologia d’autore sui testi di oggi, è casomai quello opposto: la sovrabbondanza. La facilità con cui i bit si archiviano, senza limiti di spazio o di peso, moltiplica la registrazione dei diversi stati del testo. È da considerarsi come la norma – e non l’eccezione – il caso di Nicola Lagioia, che per il suo Riportando tutto a casa ha messo a disposizione dei filologi diciannove diverse stesure, selezionate tra le centoventi di cui ha tenuto memoria. Tornando a Borges, il rischio è quello di trovarsi nelle condizioni di Funes il Memorioso, che «due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva richiesto un’intera giornata».
Penna Quella di cui si perde traccia è la correzione immediata: fatta nell’atto stesso di scrivere, prima ancora di portare a termine la frase o la pagina. Currenti calamo, si sarebbe detto una volta, facendo riferimento alla penna (latino calamus). Ma in realtà la penna, come la carta, è ben lungi dallo scomparire. Utilizzata ancora per correggere le stampate delle varie stesure o le bozze di tipografia e per scrivere o riscrivere ampie porzioni di testo. Tipico il comportamento di Tommaso Pincio, che nei sei abbozzi di Cinacittà (per i primi tre Apocalypse Roma) crea spesso materici collage, integrando di suo pugno – qua e là con qualche disegnino – il concreto taglia/incolla di versioni precedenti. Emblematico quello di Francesco Piccolo, che – giunto alla quarta delle otto stesure di E se c’ero, dormivo — accantona provvisoriamente il computer e, in cima alla prima pagina di un quadernone a righe, annota: «Ottobre 1997: riscrittura a mano del romanzo (per sentire il peso delle parole)» (oggi, peraltro, la situazione si è capovolta: il peso delle parole – dice – lo sente solo al computer).
Tutti a penna restano i materiali preparatori: taccuini, agende, quaderni, foglietti sparsi, biglietti del tram su cui gli scrittori appuntano idee, frasi, scalette; riflessioni, impressioni, citazioni frammezzate magari – come nel caso di Paolo Nori – da iconiche vignette. E poi ci sono le postille: le osservazioni aggiunte post factum, spesso su colorati post-it, rivelatrici a volte di un lungo dialogo interiore. Come nei continui autocommenti di Piccolo («eliminare gli aggettivi prima del nome tranne nei casi di ironia», «questa è una frase migliorabile sicuramente», «questo imperfetto-presente mi piace») alla strenua ricerca di quella che è diventata la sua voce. Quella «lingua saggistico-narrativa, che – racconta nella nuova introduzione al suo Scrivere è un tic — vado esplorando da anni, che è la ragione per cui scrivo». A mano, a macchina o al computer poco importa; il lavoro dello scrittore resta sempre lo stesso: scrivere significa riscrivere.