La Lettura, 30 settembre 2018
Richard Ford: «Conosco i miei personaggi entrando dentro un film»
La conferenza stampa a mezzogiorno, una sfilza di interviste a seguire: nessuno sembra aver considerato che anche uno scrittore ha bisogno di mangiare. «Ma non c’è un tramezzino? Non so, qualche cracker? Un frutto?». Ian McEwan si aggira per la stanza con le mani in tasca e sul viso un’espressione di stupore e sconcerto. Gli organizzatori si scusano, provvedono. Ecco il menù dell’albergo, ordini pure ciò che vuole, precisano. McEwan soppesa le varie opzioni, seccato, forse, di trovarsi obbligato a fare in pubblico una scelta personale. L’impressione è che ancora non abbia fatto il callo al ritmo serrato del lancio di un film che vanta la partecipazione di Emma Thompson e Stanley Tucci. Se letteratura e cinema sono generalmente due mondi separati, nella vita di McEwan si accavallano sempre di più. Dopo L’amore fatale, Il giardino di cemento, Cortesie per gli ospiti, Espiazione, Chesil Beach, tocca adesso a Il verdetto (nelle sale il 18 ottobre), tratto da un suo romanzo, La ballata di Adam Henry, e da lui adattato per lo schermo.
Per un lettore guardare il film ricavato da un romanzo conosciuto e amato è sempre un’incognita. Sarà bello come il libro? Gli farà giustizia? Che cosa vuol dire, invece, per uno scrittore rimettere mano a una propria creatura e impastarla di nuovo per il cinema? «L’importante è trovare la squadra giusta», sottolinea McEwan, pacato e apparentemente umile nonostante la ventina di romanzi a suo nome e vendite di vari milioni di copie nel mondo. La ballata di Adam Henry, poi, è stato un libro personale, incentrato sulla figura di una giudice dell’Alta Corte che si trova davanti a un caso complicato e penoso, ma anche su un’unione in crisi proprio nel momento in cui il suo primo matrimonio andava a rotoli.
Il libro e il film rimangono nella sua mente cose separate o sono due volti della stessa persona?
«Un po’ si confondono. Il film è più recente, quindi è più fresco nella mia mente, ma la loro essenza è molto simile. La distinzione classica è che il grande dono del romanzo è la qualità interiore, ovvero ciò che succede nella mente dei personaggi, un aspetto difficile da tradurre per lo schermo».
Che cosa significa tagliare scene di un suo romanzo per adattarlo al cinema?
«Nel caso de Il verdetto è diverso già l’inizio. Una sceneggiatura non è un’opera completa, è come se fosse una ricetta o una serie di istruzioni che viene mediata attraverso gli occhi degli attori, del regista, dei costumisti. Questa è la ragione per la quale non ho mai considerato la sceneggiatura una forma a sé stante. Inevitabilmente si perdono tante cose e se ne acquisiscono altre. Ci sono scene che possono esistere solo al cinema e che sono in grado di trasmettere allo spettatore emozioni forti senza utilizzare una parola. In questo film per me l’esempio perfetto è la scena della trasfusione, con la musica di Bach come colonna sonora, la preoccupazione tenera e superficiale degli infermieri, il ragazzo lì nel letto, passivo. Nel libro non sarebbe stata possibile. D’altra parte ci sono cose che ho dovuto abbandonare. Non è stato facile. Altre ancora che ho dovuto ristrutturare. Nel libro il ragazzo al centro del caso nella seconda metà sparisce. Nel film no. Non avrebbe funzionato. Sarebbe stato troppo astratto lasciarlo fuori».
È raro vedere un film che ti piace come il libro?
«Dipende dai gusti personali».
Scrivere la sceneggiatura le fa conoscere meglio i personaggi o notare, grazie anche alle interpretazioni degli attori, aspetti che non aveva considerato?
«Ci sono ambiguità diverse nel film e nel libro, anche se è chiaro che nelle mani di un attore, soprattutto bravo come i nostri protagonisti, cambia tutto. L’assistente della giudice, ad esempio: ho sempre pensato a lui come un personaggio debole, mentre nel film emerge un lato diverso, è molto protettivo nei confronti della sua datrice di lavoro, è ironico, intelligente, raffinato. La protagonista, Fiona Maye, nel libro non viene descritta, non ha un viso. Adesso è Emma Thompson, che è di una bravura spettacolare. Mi interessava, scrivendo il libro, il fatto che la vita pubblica e la vita privata convivono nella stessa mente. Succede a ognuno di noi, ma nel caso di un giudice è diverso in quanto ogni sua decisione ha un grosso impatto sulla vita altrui. La Fiona Maye di Emma Thompson arriva in tribunale addolorata. Infine il marito di Fiona, che nel film diventa americano: ha un senso, è nella loro natura voler parlare dei problemi mentre noi inglesi siamo più riservati. Il risultato è che nel film è un personaggio più simpatico, più caldo e questo rende la trama più avvincente, più complicata».
Nella sua prosa, si ha l’impressione che i personaggi femminili siano più articolati di quelli maschili. Le risulta più facile scrivere di donne che di uomini?
«Non saprei. Quando scrivo non li considero distinti, nel senso che sono prima di tutto personaggi. Cerco di entrare nelle loro teste. È vero che mi è stato chiesto perché in questo libro il giudice è una donna. Credo che la storia non sarebbe stata così interessante se fosse stato un uomo. È vero anche che forse senza le donne il romanzo cesserebbe di esistere. Credo che leggano più degli uomini. Racconto spesso che una volta con mio figlio sono andato in un parco di Londra con varie cassette di libri che non volevo più tenere a casa. Li volevo regalare ai passanti. Le donne li hanno presi, ringraziando, gli uomini per la maggior parte hanno risposto: no, grazie».
Fiona Maye, nel suo libro e nel film, è una donna relativamente sola, in un mondo in cui i colleghi e gli amici sono prevalentemente uomini.
«Sì, assolutamente, anche se la sezione dell’Alta Corte che presiede lei, quella dedicata ai problemi familiari, è diversa dalle altre. È un ambiente fatto di tante storie umane. Il divorzio, ad esempio, è la storia della fine di un amore, una storia che inizia con due persone che si vogliono bene e che spesso alla fine non si sopportano più. Al giudice spetta il compito di trovare una via di mezzo, una soluzione, in una situazione in cui le due parti possono essere irrazionali. Ad esempio, riguardo a come tirare su i figli. Entrambi i genitori li adorano, ma hanno idee diverse. Spetta alla corte decidere. Devo dire che questo libro, e quindi il film, è nato da un’amicizia con un giudice, Sir Alan Ward. Ho letto le sue sentenze su casi complicatissimi, come la separazione di due gemelli siamesi, un caso che in Gran Bretagna suscitò molti dibattiti, e quello della trasfusione per un testimone di Geova di cui si parla nel libro e nel film, e ho capito che lì, nella Family Division dell’Alta Corte, c’erano tutti gli ingredienti di un romanzo – nascita, vita, amore, morte».
Le piace lavorare per il cinema?
«Può essere una situazione molto piacevole, così come può essere molto frustrante. Ci sono progetti che non si materializzano, ad esempio. E mi sono successe disavventure tipicamente hollywoodiane, come essere licenziato da un mio progetto, L’innocenza del diavolo. Il regista, il produttore e io fummo tutti licenziati da 20th Century Fox. Mi chiamarono di nuovo a collaborare con un altro regista e due settimane dopo fui licenziato ancora».
Riesce a scrivere anche adesso che ha tutti questi impegni cinematografici?
«Sto finendo un romanzo, che però è stato molto disturbato da questa sceneggiatura, ma devo dire che la cosa che assolutamente uno non ha quando lavora a un romanzo è la possibilità di collaborare con una squadra meravigliosa. Quando arriva la luce verde, le cose succedono in fretta. Scrivere invece è un’occupazione molto solitaria, lenta e silenziosa rispetto al caos allegro di un film».
Scrivere sceneggiature secondo lei l’ha resa un romanziere migliore?
«Non so, non credo, e se lo ha fatto non ne sono cosciente. Forse però mi ha dato una nuova prospettiva, ci sono alcune scene che vedo in modo diverso mentre scrivo».
Cosa fa per distrarsi?
«Cammino».