Corriere della Sera, 30 settembre 2018
Intervista a Bruno Bozzetto
Dice di aver preso l’istinto del disegno e della prospettiva dal nonno materno, un pittore bergamasco dell’Ottocento, Girolamo Poloni, che dipingeva Madonne, angeli e Gesù Cristi. Ma se l’istinto è quello, l’ispirazione è un’altra, anche perché Bruno Bozzetto è un uomo del Novecento, che sin da giovane ha respirato cinema, fumetto e cartoon. A ottant’anni suonati (in marzo), porta la sua età e il suo passato con leggerezza e con occhi chiari da ragazzo. Il grande studio di For Fun Media, in un cortile vecchia Milano, è frequentato da una cinquantina di giovani, tra cui i suoi figli Andrea e Fabio, che hanno superato i 40 e che, con le due sorelle (gemelle) Anita e Irene, hanno ereditato a loro modo le passioni del padre.
L’importanza del padre…
«Ero figlio unico e mio padre voleva che entrassi nella ditta di famiglia, un’industria bergamasca di prodotti chimici per il tessile. Poi quando da liceale sono andato a Londra per l’inglese, invece di entrare al British Museum, nel tempo libero mi fiondavo a vedere cartoni animati, non ne perdevo uno. Non Disney, l’unico che passava anche in Italia, ma Tex Avery e altri... A casa raccontai a mio padre questo mondo meraviglioso ma non capiva».
Le sue prime prove?
«A 15-16 anni cominciavo a fare i primi esperimenti di animazione su un bloc notes consultando il solo libro disponibile in italiano, un manuale di John Halas. Una sera mio padre, che era un patito per la tecnica, torna a casa con una piccola macchina 8 mm, convinto di usarla lui: non l’ha mai vista, ho cominciato a fare film di ogni tipo, documentari, gialli, storielle sul portinaio... montavo con una moviolina piccola così fino all’una di notte».
In famiglia finalmente capirono?
«Sentivo che mio padre diceva a mia madre: fa centinaia di disegni, ma a cosa servono? La primissima macchina da ripresa però me l’ha costruita lui con un asse da stiro e una manovella che faceva avvicinare tutto il ripiano al disegno. Funzionava benissimo».
Il grande esempio da seguire era Disney?
«No, Disney terrorizzava, era irraggiungibile. Non puoi dipingere pensando a Michelangelo… Quando ho scoperto che c’erano film fatti in Jugoslavia o in Cecoslovacchia con quattro righe, più modesti nel disegno ma davvero geniali, ho preso coraggio e ho capito che quelle cose le potevo fare anch’io».
Com’è stato che nel 1958 con «Tapùm», il primo film «vero», è finito a Cannes?
«Al liceo classico, studiando storia, ho capito che l’uomo non fa altro che costruire armi, e allora ho fatto il mio primo film su quello. Walter Alberti, direttore della cineteca di Milano, m’ha detto: c’è un festival di cartoni animati a Cannes, parallelo a quello grande, prova a mandarlo. Ho provato e l’hanno accettato».
Poi è arrivato un colpo di fortuna...
«La fortuna è la base della vita. Pietro Bianchi, il critico del Giorno, guardando un film con Sophia Loren si stufa, uscendo sente una musichetta, si incuriosisce, entra nella saletta laterale e trova il mio film. Il giorno dopo esce il titolo: “Bozzetto meglio di Sophia Loren”».
E la scuola?
«Volevo fare biologia ma dicevano che era una facoltà per donne. Allora mi sono iscritto a geologia, mi affascinava la natura ma il problema era che ci portavano in giro a vedere le rocce e perdevo un sacco di tempo. Avevo già cominciato a fare i primi Caroselli…».
Com’è arrivato a Carosello?
«Grazie a un ex compagno di scuola che lavorava all’Innocenti... E così il primo corto per Carosello è quello della A40, una spider che chiamavamo la bistecchina. Carosello voleva dire soldi. Bastava inventare una storiella, con un banale gioco di parole. Inventai un gatto maltrattato da due gattini, a un certo punto lui li prende per il collo e gli altri dicono: noi siamo innocenti. E lui risponde: eh no, Innocenti è la A40. Ma si può! Una vera idiozia… Eppure funzionava. Quando ho vinto il premio Trieste, mio padre mi fa: perché continui a studiare? Poi mi hanno chiamato per le caldaie Riello, ho inventato l’Unca Dunca e le cose hanno cominciato a girare».
Insomma, è andata bene.
«Sì, da ragazzo ero andato da Toni Pagot, l’autore dei Fratelli dinamite e di Calimero, gli ho chiesto se valeva la pena fare animazione: no, mi ha risposto, fallo solo come hobby...».
E oggi lei cosa direbbe?
«Oggi puoi fare un sacco di cose, anche senza disegnare: scrivere soggetti e dialoghi è importantissimo, gli effetti sonori e la musica… È un lavoro di gruppo, io da solo avrei fatto il 10 per cento...».
Quanto conta lo stile nel disegno?
«Il disegno è il mezzo con cui riesco a dar corpo a un’idea, ma è la storia che conta. Io non ho mai avuto uno stile, mi adatto, cambio, non so neanche che stile avevo la settimana scorsa. Il mio disegno è povero, essenziale, quel che è in più lo butto. Poi però se faccio il Bolero devo cambiare: lo stile è funzionale».
Le piace la letteratura?
«Leggo tantissimo. Ho iniziato con Hemingway che mi piaceva per la stilizzazione, Salinger mi ha fatto impazzire, Herzog di Saul Bellow anche, e poi Malamud... Il deserto dei Tartari l’ho letto dodici volte».
Ha conosciuto Buzzati?
«Magari! Passava tutti i giorni davanti al mio studio per andare al Corriere. Quando sono andato a vedere al cinema il Deserto dei Tartari, sono arrivato in sala per primo ma sono uscito dopo un quarto d’ora. Conoscevo talmente bene il libro che mi dava fastidio tutto: la fortezza era di qua e non di là, era di un altro colore... Io ho il vizio di vedere ciò che leggo».
Com’è nato «West and Soda»?
«Ho sempre amato il cinema western non tanto per le storie ma perché vado matto per certi paesaggi e colori. Una mattina, era il ‘62 o il ’63, in spiaggia il mio amico Attilio Giovannini mi fa: Bruno, perché non fai un lungometraggio? Sei matto, gli dico. Ma ho cominciato a rifletterci. Non volendo fare favole classiche alla Disney, mi sono detto: il western è la favola moderna, è già scritto, tracciato, con i buoni e i cattivi. Dunque potevo sbizzarrirmi senza pensare troppo alla storia: così ci siamo divertiti a lavorare sulle variazioni del tema. Non c’era sceneggiatura, abbiamo fatto lo storyboard disegnando tutto come un fumetto, attaccando alla parete i quadratini in sequenza».
Fellini l’ha conosciuto?
«Un giorno, nei primi anni 80, mi ha chiamato, voleva vedermi. L’ho raggiunto in albergo qua a Milano e mi ha detto: Bruno, io avrei un filmetto... Un filmetto, figurarsi, era Ginger e Fred... Dovevo inventare la sigla e i titoli, ma lo stimavo troppo e avevo paura, non me la sentivo. Gli dicevo: guarda che tu con gli attori fai molto di più di quel che posso fare io, tu prendi un personaggio, grasso, magro, e lo fai diventare una caricatura, cosa vuoi di più... Poi mi ha chiamato per dirmi che aveva perso il produttore. Per un anno si è dovuto fermare, pur essendo Fellini, e la cosa si è chiusa lì».
Un gran disegnatore anche lui.
«Se il giorno in cui prese il treno per andare da Rimini a Roma, fosse salito per sbaglio sul treno per Milano, sarebbe diventato il Miyazaki italiano, perché con la mano e con la testa che aveva avrebbe fatto cartoni straordinari».
Il Signor Rossi è ancora attuale?
«È nato come parodia dell’italiano comune, un po’ alla Alberto Sordi o alla Fantozzi, che ha preso molto dal cartoon. Adesso stiamo pensando di farne un blogger, o meglio la parodia di un blogger, un pasticcione alle prese con una sua tecnologia strampalata. È un progetto a cui stiamo lavorando...».
Oggi è facile far ridere?
«Prima c’era più libertà e meno concorrenza, oggi è impossibile essere originali se non sei volgare o violento. L’umorismo è difficile, anche perché cambia da nord a sud... A Napoli è molto concreto; più saliamo e più diventa astratto, in Inghilterra bastano due battute».
L’attualità che cosa le ispira?
«Certi personaggi pubblici sono già cartoni animati nella realtà. Sono le cose serie a darti lo spunto per deformare, ma se sono già deformate, comiche, grottesche e surreali, che cavolo puoi inventarti? Trump è già un cartoon».
Tra i suoi amici c’era Enzo Jannacci.
«Ha fatto le musiche dei miei primi cortometraggi e volevo che lavorasse anche a West and Soda, ma si negava: c’era, non c’era, era giù ad aggiustar la moto… Quando lo beccavo e gli raccontavo il film, inventava una musica lì per lì; anche per i cortometraggi faceva così: canticchiava il motivo e poi qualcuno finiva il lavoro. A un certo punto gli dico: basta, Enzo, lasciamo perdere, vedo che non ti interessa. E ho preso Boneschi. Ho fatto la sua fortuna, perché se si fosse invischiato in un film, per un anno e mezzo, l’avrei distolto dalle canzoni per cui era nato. Probabilmente l’aveva capito anche lui. Era un genio, come Gaber, Fo...».
Dario Fo?
«L’ho conosciuto al Teatro Nuovo in gabinetto, nella pausa di uno spettacolo di Iacchetti, eravamo impegnati tutti e due in piedi e ci siamo presentati a distanza. Imbarazzante...».
E i successi internazionali? Il festival di Montreal e la nomination a Hollywood?
«Nel 1967 ho ricevuto la medaglia d’argento in un festival canadese nato in occasione dell’Expo, il tema era L’uomo e il suo mondo. L’anno dopo mi sono ritrovato in giuria con Jean Renoir presidente: c’era una festa con John Ford e Fritz Lang, vecchissimi, uno aveva la benda sull’occhio destro e l’altro sul sinistro, non si capiva chi era Ford e chi era Lang».