il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2018
Lunga intervista a Federico Zampaglione
L’inatteso arriva dal sorriso. Dallo sdrammatizzare. Dal relativizzare. Dal leggere con lucidità la sua vita e carriera. Eppure per anni Federico Zampaglione, fondatore e leader dei Tiromancino, è apparso burbero, chiuso, quasi respingente, “e in parte è colpa della timidezza, del sentirmi inadeguato sul palco; e poi c’è il tono delle mie canzoni a non aver agevolato differenti percezioni, e a un certo punto della carriera, ho proprio mollato tutto, e a lungo, per puntare sui film horror”. Altra cupezza. “Eh, infatti…”. A 50 anni ha totalmente mutato la prospettiva; la prospettiva è l’oggi, senza tanti ghirigori sul domani, alcuna eccessiva proiezione, ma il gusto di “godere di un piatto di pasta alle vongole come se fosse l’ultimo. Così viveva anche Lucio Dalla”.
Da poco è uscito il suo ultimo lavoro, Fino a qui, quattro brani inediti, più dieci storici, riarrangiati e interpretati insieme ad altrettanti amici-musicisti, da Giuliano Sangiorgi a Calcutta, da Alessandra Amoroso a Tiziano Ferro; “con Biagio Antonacci abbiamo inciso dopo un bicchiere di vino. Oddio, più di uno, ma il risultato è fantastico”.
Insomma, nel 2008 ha mollato…
Dopo aver raggiunto il sogno di sentire i miei pezzi cantati da altri, i passaggi per radio, e l’adrenalina perenne, sono caduto in una strana catalessi nella quale mi mancavano gli obiettivi. Mi svegliavo e la prima domanda era: “Che cazzo faccio?”.
Mentre l’inizio è stato faticoso.
A volte eravamo più noi sul palco che gente sotto.
Come mai?
Negli anni Novanta risultavamo troppo melodici per chi veramente amava la musica da centro sociale e troppo strani per il pop italiano.
Ha più ascoltato i vecchissimi lavori?
Il primo album no, ma in generale non sento alcun mio disco, al massimo i pezzi quando li trasmettono le radio.
Dicevamo Antonacci.
È il maestro delle ballate d’amore, e poi ha una tonalità a sé stante, con frequenze tutte sue.
Per alcuni non ha voce…
Secondo me è il contrario, e poi interpreta molto, non è uno fissato sul bel canto; lui inventa. E mentre suonavamo il brano, pensavo: “Chissà cosa direbbe il maestro”.
Il maestro è Califano.
Quando l’ho riascoltata, la mente è andata al Califfo sulla sua Jaguar anni Settanta.
Per lei è sempre una presenza attiva…
Conoscere Franco è stata una gran botta di culo, ma al di là delle canzoni, proprio la persona; un personaggio talmente potente da aver oscurato la sua musica, e nonostante alcuni capolavori.
Le piaceva prima di conoscerlo?
Tantissimo. E non cantava neanche una sillaba se non la sentiva dentro, se non la riteneva vissuta.
Un poeta.
Un giorno siamo in macchina, viaggiamo vicino al mare. Mi dice: “Fèrmate”. Obbedisco. Scende dall’auto, si incammina, non capisco, poco dopo lo seguo. Lo raggiungo: era con gli occhi bagnati di lacrime: “Me commuovo sempre quando il sole more”.
Perla assoluta.
Dotato di grande sensibilità, poi era anche preda del suo personaggio; comunque uno di cuore.
Ci ha lavorato insieme.
Un giorno gli porto un brano: “Fra’, manca solo la frase finale”. La prende, legge, e subito: “‘Non escludo il ritorno’, altrimenti se monta la testa”. Lì ho pensato: “È un genio”, e l’ho abbracciato.
Non si offende quando le correggono i pezzi.
Il Califfo poteva buttarli anche al cesso, da lui mi sarei preso di tutto; con gli altri colleghi è normale il dialogo, non tutte le parole calzano a prescindere. Quando Franco mi ha scritto Un tempo piccolo, sono intervenuto sul testo: in origine era “dimenticai un passato folle in un tempo piccolo”. Avevo 33 anni, ma quale passato? Rischiavo il ridicolo.
Tra i presenti nel disco c’è Luca Carboni.
Amici dal 1992, quando aprivo i suoi concerti; lui mi ha sempre affascinato, alla fine l’ho inquadrato “come fotografo dell’intimità”, in grado di narrare i piccoli stati d’animo.
Dicevamo la sua presunta cupezza…
In passato avevo serie difficoltà nel propormi.
E lei ci soffriva.
Moltissimo, perché ero così anche sul palco: mi sentivo quasi inadeguato, e nei video non apparivo mai, non mi piacevo mai, ogni foto era un dolore.
Sul palco rifletteva…
Su come non ci riuscivo. E mi bloccavo, il buen retiro mentale erano solo le canzoni; in definitiva non mi sentivo niente di che.
Tutto risolto?
Il tempo mi ha permesso di accettarmi e prendermi meno sul serio. Comunque di questa vecchia situazione, e come raccontavo, anche i film horror hanno contribuito.
Ha il naso leggermente gonfio e storto.
Cazzotto sul ring.
Pratica la boxe?
Mi piace tantissimo, sono diventato uno dei massimi analisti italiani: ho una pagina web con quasi diecimila amici, molti dei quali sono professionisti del settore.
Torniamo a “ieri”: come ha gestito il successo?
Confusione totale, anche perché è arrivato tutto insieme, e forse in quel momento avrei potuto spingere ulteriormente, mentre ho preferito rinunciare a qualcosa. Però è stato difficile.
Al punto tale che…
Ho detto “basta”, e mi sono ritirato fino al 2014.
La casa discografica come la prese?
Con una bella causa.
Ecco il cinema.
La salvezza, e nonostante tutti me lo sconsigliassero. E con sacrosante ragioni.
Eppure.
Ho capito immediatamente di non poter concludere in Italia, alla sola ipotesi di un mio film horror, si sono scatenati i siti specializzati con ricche prese per il culo.
Fuga all’estero.
Il risultato? Shadow è l’horror italiano più venduto nel mondo negli ultimi vent’ani; tutto grazie a quel folle di Massimo Ferrero
La musica, nel frattempo?
In quel periodo ho perso quasi tutto il mio pubblico, la mia “statuetta” era fuori dal presepe dei musicisti…
Impressionato?
Per niente, in alcuni momenti forse soddisfatto, fino a quando hanno iniziato a definirmi in qualunque modo, compreso ex musicista.
O marito della Gerini.
Appunto.
Peggio “ex musicista” o “marito della Gerini”?
Se la giocano; dipende dai momenti. Comunque ero visto come uno che dava i numeri, mentre nel frattempo mi invitavano ai festival di tutto il mondo, dall’Asia, alla Germania, fino all’America del Nord.
Meglio Sanremo o il Festival di Venezia?
Venezia perché lì mi diverto; a Sanremo è quasi impossibile.
In un suo film c’è Remo Remotti.
Personaggio assurdo, impossibile fargli seguire il copione, andava avanti a “nun me rompete il cazzo”; alla fine il senso della scena lo portava a casa.
La musica poi è tornata.
In un periodo complicato: mia madre stava molto male, e anche la vita privata non era serena.
Pessimo, non complicato.
Peggio: di merda proprio, quando ogni sospiro si somma a quello precedente, e le mazzate giungono a raffica; quindi ho preso in mano la chitarra, e senza pensarci è uscito l’arpeggio di Liberi: non sentivo più quel senso di staticità, ma lo spirito del ventenne.
È stato il classico ragazzo da spiaggia, chitarra in mano?
A 16 anni sì, a 17 mi esibivo nei locali con Alex Britti.
Lei suonava gli altri rimorchiavano.
Questa è stata la reale fregatura. “Fai quella, fai quell’altra…” e via; poi gli altri se ne andavano e io restavo nel ruolo del menestrello.
Ha recuperato da famoso.
Eh, i primi anni tantissimo, poi non sono mai stato un bello, e quando sono arrivate, e tutte insieme, mi sono stupito. I primi tour, incredibili.
Un continuo.
Quando parlo con i giovani artisti, e me lo raccontano, rido perché mi ci rivedo.
Lei da ragazzo.
Lo spiego in un brano: se non avessi incontrato la musica, forse sarei morto.
Addirittura.
Ero molto, troppo vivace.
Quanto?
Mio padre è ammattito.
La veniva a riprendere?
Arrivava insieme a mia madre, con lei armata di zoccolo: quante ne ho prese, il dottor Scholl lo conosco molto bene.
Santa musica.
Grazie a mio padre: un giorno entra in camera con un album live di Eric Clapton: “A Federì, senti un po’? Cosa ne pensi?”. Io folgorato dalla chitarra.
Nel nuovo lavoro c’è molta chitarra.
È la mia passione. E forse prossimamente organizzeremo qualche serata con Britti.
Intanto duetta con Tiziano Ferro.
Sono un fan, è il nostro Sinatra, e poi unisce una gran voce a gran pezzi, e pure tanti. Quanto scrive…
Anche lei.
Spesso neanche me ne accorgo, mi viene l’ispirazione e lo registro sul telefonino.
Lucido o alticcio?
Oramai lucido, non tocco quasi più nulla, ho già dato, ora basta.
E quando sua figlia le domanderà come è stato da giovane?
Risponderò: vivace.
Sua figlia è nel disco.
Appassionata di musica, ne ascolta in continuazione, e so dagli altri che mi cita, mentre quando è con me evita di darmi delle soddisfazioni.
La sua voce le piace?
Più oggi con un’impostazione blues, mentre quando sento i pezzi di un tempo, con toni alti, un po’ sorrido e penso: dove mi andavo a impiccare? Pure per questo li ho voluti ricantare.
Il brano con la Amoroso è molto bello.
Alessandra è una performer, è un soldato, una seria sul lavoro, e quando la metti dietro a un microfono, si strappa il cuore.
Lei da giovane, concorrente di un talent.
Probabilmente mi avrebbero stroncato.
Da giudice?
Perché dovrei giudicare una carriera su un singolo pezzo e in una situazione complicata e inedita?
Thegiornalisti: oggi tutto quello che toccano è oro.
Sono momenti magici, molto delicati, dove devi cercare di mantenere la tua identità, non accettare le sirene, i facili complimenti; dove tutti ti cercano, dove credi di essere il centro del mondo. Lì devi evitare le mode. Le mode finiscono. Ma Tommaso (Paradiso, il leader) è veramente bravo.
La sua carriera sarebbe stata la stessa, senza “Le fate ignoranti”?
Non credo, lì è stata una bomba a orologeria. (In agenzia esce la notizia di “Dogman” per gli Oscar).
Ha visto?
Tifo Marcellino.
Lo conosce?
Una sera mi chiama Garrone: “Usciamo? Viene anche Marcellino”. Volentieri. Entriamo in un ristorante, con noi pure Matt Dillon ela fidanzata.
Non uno qualunque.
Tutta la sera c’è stata una processione di fan per chiedere un selfie a Marcellino, il povero Matt Dillon sembrava preda di una puntata di Scherzi a parte: nessuno lo filava.
Niente.
Nessuno! Ogni tanto dopo aver visto Marcellino, qualcuno chiedeva pure a me una foto, Dillon abbandonato. Se n’è andato.
La fama è un attimo.
Per questo ho cercato un mio percorso, una identità, uno stile riconoscibile; per questo prima consigliavo di evitare le mode.
E non esclude il ritorno.
Infatti sono qui. E resto.
(Cantava il Califfo: “Tanto non c’è niente di logico nell’esistenza”).