La Stampa, 30 settembre 2018
Vale, il dio della velocità dice che il tempo non esiste
Nell’autunno italiano si consuma, parallelo e simbolico, quello del signor Rossi. Solo le vite straordinarie possono diventare paradigma per le esistenze di tutti. Per questo la mitologia racconta gli dei; Paolo Sorrentino, Silvio Berlusconi e questo articolo, Valentino Rossi. In effetti, lui che arriva ottavo sulla pista di Aragon è un po’ come il cavaliere dimezzato che scende all’8 per cento nei sondaggi elettorali. Eppure entrambi continuano a correre, per il bene delle rispettive aziende, certo, ma anche per una sorta di velocissima inerzia che sfida il tempo con il proposito di rallentarlo.
C’è della scienza nella follia di un quasi quarantenne che si ostina a competere con i suoi «figli» anche quando li insegue invano. Albert Einstein ci ha insegnato la relatività del tempo: scorre diversamente a seconda di dove ci si trova. Un uomo in pianura invecchia più lentamente di un uomo in montagna. E un uomo inscritto in un circuito tende a frenare ulteriormente quel processo. Non va da A a B, ma da A a A. Il suo percorso è l’eterno ritorno al punto di partenza, che coincide con quello di arrivo. Corre, ma incontra più e più volte la stessa scena, la conosce a memoria, la anticipa. Disse Valentino Rossi nel 2017, alla vigilia del Gran Premio di Jerez de la Frontera, il numero 3000 nella storia del motociclismo: «Li ho corsi quasi tutti...scherzo, ma qui ci sono cresciuto da ragazzino e quando esci dalla curva 8 e vedi tutto quel pubblico è una grande motivazione».
Non scherzava. È «cresciuto» nei circuiti, da uno all’altro, li conosce a memoria. Ha recintato la sua vita. Sa già che cosa lo aspetta all’uscita da ogni curva. Per lui la domanda: «Che cosa c’è dietro l’angolo?» ha una risposta certa. Ammette aspettativa, ma non sorpresa. Se la curva è la 8, ci sarà ad attenderlo «tutto quel pubblico». Corre alla massima velocità ma resta fermo, rivede anno dopo anno la stessa scena e questo lo conforta. Perde i capelli, cambia le compagne di vita, gli muoiono gli amici, ma ritrova quel pubblico indistinto, che varia eccome, ma nello sguardo fuggevole dietro la visiera del casco è sempre lo stesso, eccitato e innamorato. Un muro di folla, l’amore e il buio oltre quella siepe.
L’uomo nel circuito non torna mai da un lungo viaggio, ripassa continuamente dalle stesse stazioni. Se rivedete una persona dopo dieci anni vi accorgerete di quanto è cambiata, ma se la vedete ogni dieci giorni, qualsiasi variazione a voi risulterà impercettibile e, se la amate, inesistente. Valentino Rossi ha usato il trucco del circuito e quello dell’amore per provare a sconfiggere, agli occhi di chi lo guarda, il tempo. Molti, nella vita pubblica come in quella privata, hanno fatto ricorso allo stesso stratagemma: vi hanno detto che sono la vostra esistenza: non potete accettarne la fine perché cancellando loro eliminereste voi stessi. È un ricatto, una pazzia, eppure a volte funziona.
Secondo Graziano Rossi, il padre che per parlare al figlio gli scrive lettere, comprando il francobollo, la busta e impostandole regolarmente: «Valentino può continuare a correre anche oltre i quarant’anni . Io lo vedo come se di anni ne avesse ancora dodici». Pare accada a tutti i genitori. Il fermo immagine sui figli è anche e soprattutto un fermo immagine su se stessi, un modo per non sentirsi invecchiati, superati, presto dimenticati. Rassicurare che non stia accadendo è una chiave per ottenere il gradimento. Se si accende il televisore la domenica pomeriggio e si ritrovano le stesse facce di venti o trenta anni fa, allora va tutto bene, ci si può rilassare e slacciare le cinture di sicurezza davanti a uno specchio. Se Al Bano e Romina sono ancora insieme, forse allora non è successo niente, era soltanto un brutto sogno. È questa fantasia a creare i vampiri, cristallizzati per sempre all’età del primo morso ricevuto. Valentino nei suoi dodici anni eterni sprigiona ancora luce, ma adombrata da una ruga, una polemica, un piazzamento nella polvere.
La sua autunnale lentezza fa più notizia della rapidità di un Dovizioso. È il destino degli dei: Cristiano Ronaldo si fa espellere e ruba la scena ai 10 spartani che espugnano Valencia. Se Valentino smette di vincere è un pezzo d’Italia che si stacca dal mosaico della sua visione nel mondo, come affondasse Venezia. Ho visto ragazzi di Herceg Novi abbracciarsi in un bar dopo un suo successo, come se il Montenegro avesse vinto i Mondiali. Sono salito in moto a Byblos con un islamista che indossava un casco con il numero 46. Un portiere d’albergo a Riga mi ha accolto così: «Italiano? Mafia, pappagallo, Valentino Rossi». Togli lui, che resta?
L’ultimo trionfo è stato lo scorso anno, ad Assen. Ci aveva vinto anche vent’anni prima, quando gareggiava nella categoria 125 cc. Nella foto d’epoca sul podio ha i capelli lunghi che gli coprono gran parte del volto e fanno da sipario agli occhi. Il braccio teso è incerto, la mano destra accenna a chiudersi in un pugno. La sinistra è posata sul fianco. Vent’anni dopo avrà perso i capelli, esulterà consapevole, sembrerà il padre di quel ragazzo, ma sarà la stessa persona, non la sua evoluzione, il suo invecchiamento: la stessa persona.
Le divinità minori della nostra storia, Valentino, Vasco, Totti, si sono inscritte nella propria arena, circondate dalla propria gente, che li adora perché hanno fatto da segnalibro ai capitoli della loro vita, da colonna sonora a ogni pagina. E insieme hanno respinto l’assalto del futuro, scorticando qualunque aedo venisse ad annunciarlo.
«Domani arriverà lo stesso, senti che bel vento, non basta mai il tempo» è la loro canzone. Ma non possiamo cantarla in coro: per le vite ordinarie ci sono stagioni inesorabili e finali da cui guardarsi.
Nello scambio di battute che racchiude il significato del «Grande Gatsby» l’amico lo ammonisce: «Non si può replicare il passato». Lui lo guarda incredulo e ribatte: «Certo che si può». È curioso come la stesse parole possano esprimere l’illusione di un individuo o la minaccia per una nazione.