La Stampa, 30 settembre 2018
La classe media dimenticata
Gli effetti macroeconomici della nuova legge di bilancio sono stati ampiamente analizzati in questi giorni e sono state individuate diverse ragioni di allarme sul deficit e sul debito previsti per i prossimi tre anni. A quest’analisi ieri pomeriggio il presidente Mattarella ha aggiunto una dimensione costituzionale che richiede che vengano assicurati l’equilibrio di bilancio e la stabilità del debito pubblico. Per completare il quadro occorre anche considerare la dimensione sociale, rilevante perché sono proprio considerazioni sociali ad aver caratterizzato prima i programmi elettorali dell’attuale maggioranza e poi le linee guida dell’attuale, travagliato disegno di legge.
L’azione del governo si concentrerà molto largamente, se non esclusivamente, sui trasferimenti diretti a determinate categorie di cittadini: i redditi di sei milioni di persone, i più poveri del Paese, all’incirca un italiano su dieci, saranno portati a 780 euro al mese. C’è poi un’uscita pensionistica anticipata alla quale potranno accedere circa quattrocentomila persone nel 2019, forse con il divieto di cumulare la pensione con un nuovo lavoro. Infine, nuove agevolazioni riguarderanno le partite Iva, un totale ancora difficile da precisare, e «brandelli» di classe media con le norme relative alla rottamazione delle cartelle e alla restituzione dei depositi presso banche in crisi (che un principio di equità vorrebbe depurati dei mega-interessi ricevuti da questi risparmiatori durante gli «anni buoni» – per loro – quando il capitale poi perduto rendeva molto di più di quello di un risparmiatore normale).
E tutti gli altri? Per loro non solo non c’è alcuna agevolazione diretta, e questo può anche essere ragionevole, ma neppure alcuna agevolazione indiretta: sarà ben difficile vedere nei prossimi tre anni nuovi asili, servizi di trasporto pubblico più frequente, scuole e ospedali che funzionano meglio.
I più colpiti da questo orientamento fortemente discriminatorio sono i giovani che hanno un lavoro dipendente, sovente poco pagato e a tempo parziale involontario, nonché le lavoratrici che spesso più degli uomini si appoggiano a servizi pubblici. Così, tanto per fare un esempio, la giovane commessa del supermercato che deve vedersela con orari di lavoro variabili e difficili, e il suo compagno che lavora in un autolavaggio continueranno a percepire stipendi magri e rinunceranno all’idea di fare un figlio e di sposarsi perché non si possono permettere il costo dell’asilo; in genere i giovani lavoratori continueranno a tirare la cinghia come prima (oltre a finanziare, con le proprie ritenute sociali, le pensioni di un numero crescente di anziani) sperando che l’economia non rallenti così tanto da mettere in pericolo il loro posto di lavoro.
L’azione redistributiva del governo, pur di dimensioni relativamente imponenti, fa solo passi stentati verso l’eguaglianza e in più di un caso finisce per dimenticare o addirittura per incidere negativamente sulla parte più bassa della classe media (con l’eccezione di quei «brandelli» sopra indicati). La redistribuzione così disegnata, potrebbe, in taluni casi, accentuare le divisioni tra gli italiani dai redditi molto bassi, che vengono facilitati, e gli italiani dai redditi solo un po’ più alti, che vengono dimenticati: una redistribuzione quindi che non mira a essere conciliativa ma rischia di diventare fortemente divisiva e che non incoraggia certo chi si sforza di migliorare la propria posizione. In assenza di chiari incentivi agli investimenti produttivi, si può argomentare che la crescita economica proprio non sia una priorità di questo governo. Si cerca, al contrario di razionalizzare e rendere più sopportabile un tenore di vita molto basso senza cambiare nulla di strutturale. La vera incompatibilità con l’Europa potrebbe risiedere proprio qui: nel chiamarsi fuori dal «gioco della crescita» mediante il quale il continente vuole risolvere i propri problemi.