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 2018  settembre 30 Domenica calendario

Intervista a Biagio De Giovanni

Avevo incontrato Biagio De Giovanni al Festival della politica di Venezia Mestre e sentendolo parlare di Marx (ricorrono i duecento anni della nascita) e di marxismo italiano, che imperversò tra gli anni Sessanta e Settanta, mi venne la curiosità di capire quel senso di disperazione e di inutilità che ormai alberga negli intellettuali di sinistra. De Giovanni ha ottantasette anni. Vive a Napoli in una bella casa. Un quarto piano dalla cui terrazzetta si scorge uno spicchio di mare. E se penso, come pensava la Ortese, che il mare non bagna Napoli, declinerei solo una mezza verità. L’altra metà è che Napoli è liquida e porosa. Come le idee che tanti intellettuali napoletani hanno nel tempo coltivato. Il professore indossa una t- shirt color amaranto. I capelli, bianchi e irregolari, sfrecciano verso l’alto accentuando la lunghezza di un viso ancora bello. Il fatto di averlo raggiunto, in questo supplemento di estate che sembra non voler morire, si spiega anche perché ho appena letto il suo nuovo libro dedicato a Schmitt e Kelsen (Edizioni scientifiche), come dire due concezioni molto diverse della democrazia. E allora immagino che sia la persona idonea per capire dove stiamo andando.

Lei professore dove va?
«Da nessuna parte. Sono finite le stagioni in cui credevo che la meta era vicina e che una società migliore si sarebbe realizzata. Devo dire che per lungo tempo è stato una sorta di pensiero fisso, abilmente avvolto in una sorta di attesa che a Napoli può voler dire rassegnazione, fatalismo ma anche speranza».
Ma lei non è napoletano.
«Sono nato in un paesino dell’Irpinia: Montenero, nel 1931. Dunque abbastanza fortunato per aver superato indenne le aspettative di vita. Non soffro la vecchiaia. Ma il caldo sì, che in questo momento mi affligge. Le pare normale?».
Non so più cosa sia normale. Cosa suggerisce?
«Viviamo tempi anomali. Il punto è per quanto ancora riusciremo a reggerli. Oltre un certo livello, la sopportazione del nuovo può trasformarsi in patologia».
Come si difende?
«Sono stato preso da una foga di lavoro che nella mia vita non ha precedenti. Mia moglie che ha un occhio più clinico mi dice: stai esagerando. Rispondo che è il solo modo per difendermi dal rincoglionimento. Lei conosce le tre fasi del rincoglionimento?».
A dire il vero no.
«Nella prima lo sai solo tu; nella seconda lo sai tu e gli altri; nella terza lo sanno solo gli altri».
A che punto è il rincoglionimento della sinistra?
«Assolutamente nella terza fase. La sinistra ha perso orientamento, memoria e capacità percettive. Ma non lo sa. Purtroppo».
Che cosa rimpiange di quel mondo?
«Dovrei dirle tutto, ma so che alcune cose erano sbagliate, però noi intellettuali abbiamo svolto un ruolo importante».
Ne è sicuro?
«Abbastanza da poter dire che eravamo ascoltati. C’era una circolazione di idee e di problemi di cui la politica nella sua autonomia teneva conto. Era un’epoca, gli anni Sessanta e Settanta, carica di contraddizioni. Le grandi culture politiche erano vive. Peccato che dopo un po’ cominciarono a morire senza che ce ne accorgessimo».
La miopia di chi è sazio?

«Forse eravamo stregati dal nostro ruolo senza riuscire ad andare oltre il nostro naso ideologico».
Oltre cosa c’era?
«L’ironia che avrebbe bilanciato la passione, e il distacco che avrebbe reso più credibile il realismo. Ripenso al professore con cui ho studiato e ho iniziato il lavoro universitario».
Dica il nome.
«Si chiamava Angelo Cammarata. Era stato un brillante allievo di Giovanni Gentile. Se ne distaccò quando Gentile nel 1925 redasse il manifesto degli intellettuali fascisti. Maestro, gli disse Cammarata, tra le tante cose straordinarie non ci ha insegnato la libertà».
E lei si è laureato con lui?
«No, mi laureai con Pietro Piovani su Giambattista Vico. Piovani scambiò la sua cattedra di Napoli con quella di Cammarata a Trieste e io divenni assistente di quest’ultimo. Come le dicevo era ironico e paradossale: " Come sarebbe bella l’università senza studenti!" esclamava. Un’altra sua frase ricorrente era: “I titoli sono un ostacolo alla conoscenza dei candidati”. Cammarata insegnava Logica del diritto a giurisprudenza e Piovani era uno storico delle idee».
In quel periodo il clima culturale era alimentato da Croce.
«Me lo ricordo quando uscivo dal liceo Genovesi, non distante da Palazzo Filomarino dove viveva. Certe volte vedevamo il vecchio Don Benedetto, col bastoncino, entrare nelle librerie antiquarie. Ossequiato dai bottegai. Era il 1948».
Croce morì nel 1952. Come reagì Napoli?
«Ricordo il funerale. Fu impressionante la presenza di popolo. C’era tutto il quartiere di Spaccanapoli a rendergli omaggio».
E lei era crociano?
«La mia è stata una matrice attualistica. Però c’è un Croce che va sottratto alla vulgata del filosofo della bonomia e dell’ottimismo. La riflessione degli ultimi anni è tutta, o quasi, all’insegna del tragico. Ho appena consegnato un libretto che uscirà per il Mulino».
Era un pensatore di statura europea, come Schmitt, Kelsen, Heidegger, ovviamente Gentile.
«La sua grandezza è indiscutibile, ma anche una certa preveggenza. Nel 1933 scrisse una lettera a Karl Vossler dicendo che i due veri pericoli per la Germania liberale erano Heidegger e Schmitt. E quando i fascisti per provocazione irruppero nella sua abitazione commentò: “Lo Stato etico ha bussato alla mia porta”».
Ha senso un paragone tra l’Europa di quegli anni e quella dei nostri giorni?
«L’Europa degli anni Venti e Trenta esce dalla prima crisi della mondializzazione. Tutto quello che accadrà tra il 1914 e il 1939 è frutto di quella vicenda. Si rompe il rapporto tra storia e vita. Il potere comincia a orientarsi direttamente sulle masse. E le masse sono alla ricerca di una nuova guida politica. Tutto questo lo si coglie benissimo oltre che nel dibattito filosofico anche in quello costituzionale».
Il monito di Weimar fa da sfondo a questa situazione.
«Weimar fu il fallimento della democrazia nelle sue componenti liberali. La domanda che cominciò a ossessionare le menti migliori era quale forma dare alla vita. O a quel che ne restava».
La vita?
«Le pulsioni, i desideri, le frustrazioni che si scatenarono alla fine
della prima guerra mondiale esplosero sotto forma di richieste a volte contraddittorie e a volte paradossali. Era necessario disciplinarle».
Con quale esito?
«Si assisté alla drammatizzazione del rapporto tra filosofia e politica. Heidegger andrebbe letto in questa chiave, così Schmitt. Le organizzazioni politiche furono incapaci di contenere il magma vitale. Vennero alla ribalta nuovi soggetti. Nacquero i totalitarismi».
Ha parlato della prima mondializzazione. Una seconda crisi è quella della globalizzazione. È plausibile un confronto?
«Per risponderle devo fare un passo indietro. Quando alla fine degli anni Ottanta crollò il comunismo sovietico si pensò che l’Occidente, l’Europa soprattutto, avesse davanti una prateria da conquistare. Sono stato per dieci anni parlamentare europeo. Ricordo perfettamente l’ottimismo che trasudava da ogni discorso».
Giustificato dal modo in cui gli eventi si erano sviluppati?
«L’Europa veniva da sessant’anni di conquiste economiche e, soprattutto, da una grande espansione dello stato sociale. Quando cadde il muro e successivamente implose l’impero sovietico la convinzione che si fece strada fu che fosse finita la geopolitica e si stesse andando verso l’unificazione del mondo».
Sembrava questa la direzione.
«L’illusione fu immaginare che la globalizzazione sarebbe stata un processo soft. Due autorevoli pensatori provarono a legittimare quel processo dandogli la veste nobile del pensiero post-liberale».
A chi si riferisce?
«A Jürgen Habermas e Jacques Derrida. Due tra i più ascoltati pensatori del dopoguerra. Derrida vide nel nuovo processo europeo una sorta di realizzazione universale del sogno Atene, Roma, Gerusalemme. Habermas con il suo il patriottismo costituzionale pensò che si sarebbero sconfitti definitivamente i nazionalismi».
Che cosa non ha funzionato in quelle analisi?
« Beh, l’Europa si è mossa in tutt’altra direzione. L’unificazione della Germania, ad esempio, mutò l’equilibrio europeo».
In che modo?
«Venne meno per prima cosa l’asse franco- tedesco. Mitterrand comprese che i vecchi equilibri traballavano e volle mettere sotto custodia una Germania a quel punto troppo potente. Tu cresci ma al contempo accetti l’unione monetaria. Questo fu lo scambio. Senza capire che la prima a trarne benefici sarebbe stata proprio la Germania. Poi ci fu l’11 settembre, a seguire la crisi americana del 2008 che ridimensionò drasticamente le velleità del monetarismo. Al contempo, la vecchia Europa dell’Est cominciò ad andare per conto proprio. Poi la Brexit. Infine i sovranismi. A questo punto è lecito chiedersi se siamo in una situazione analoga agli anni Trenta».
Cosa risponde?
«Poiché la guerra è un evento poco probabile, tenderei a rispondere no. Ma le altre condizioni ci sono tutte. L’effetto più drammatico è il divorzio tra sovranità e democrazia. Da quando si è indebolito il recinto della statualità — le norme costitutive che lo compongono — la democrazia della rappresentanza è entrata in profonda crisi».
Si parla di un ritorno allo Stato-nazione.
«Ne dubito fortemente. Lo Stato- nazione — come lo abbiamo conosciuto, cioè attraverso le lotte e le guerre, ma anche per la grande cultura di cui era portatore — è tramontato».
Sostituito da chi o cosa?
«Dallo Stato-popolo la cui sovranità si incarna nella sua esistenza immediata. Ma se saltano i corpi intermedi, le spinte che provengono dal basso sono recepite o manipolate dall’alto senza mediazioni ».
È la rete a produrre questa ebbrezza politica?
«È una componente fondamentale che dà una sensazione di potenza sconosciuta in passato. Individuo e massa si saldano fino a diventare la stessa cosa. Siamo a questo punto: nel momento in cui cade l’idea stessa di rappresentanza, crolla il nucleo fondante della democrazia moderna. Il passaggio, per come lo vedo io, è avvenuto».
Non si torna indietro?
«Non lo so, e non so neppure quale prospettiva si delineerà. Tornare a politiche del passato mi pare difficile, ma anche improponibile il tipo di risposte che le nuove forze adottano. Sarà un processo, comunque, molto lungo».
L’Europa sarà ancora la stessa?
«Mi pare difficile che resti uguale. C’è una grande trasformazione in atto e non vedo l’altra sponda. La rottura è stata radicale. Lo slancio che coinvolse tutti alla fine della guerra si è esaurito. Ho ancora chiara l’immagine di me tredicenne che con mio cugino salimmo su di un blindato inglese che arrivava nel mio paese. Allora ebbi la sensazione che un’Europa nuova stava nascendo: dalle macerie, dai morti, dai tedeschi in fuga, dagli alleati nell’ultima offensiva».
Quella spinta è svanita?
«Totalmente e, ripeto, non si torna indietro. La rottura è troppo profonda perché si possa immaginare di curarla con qualche palliativo. La storia difficilmente fa sconti».
Ha affrontato altre rotture?
«Essendo stato comunista ho vissuto con molto pathos il crollo di un mondo dal quale pur con molte riserve provenivo. In quel 1989 scrissi un articolo, "C’era una volta Togliatti e la fine del comunismo reale", che, con grande sorpresa, vidi pubblicato in prima pagina sull’Unità. Fu un evento clamoroso. Ripreso perfino dal Washington Post. Era agosto. Quando i dirigenti del Pci tornarono dalle vacanze si prepararono a giubilarmi. In pochi mesi fui allontanato dalla direzione centrale. Alessandro Natta, che non era più segretario da un anno, parlò di colpi di sole. Difendeva l’indifendibile».
Le rotture sono situazioni complicate da gestire.
«Quella dell’89 sembra distante anni luce da ciò che ci sta accadendo. Ma certamente siamo il frutto anche di quel collasso. Purtroppo, noto oggi lo stesso oscuro vitalismo che serpeggiò negli anni Venti e Trenta. Non so quale forma assumerà. Il mondo mi si presenta come un grande e illeggibile caos. È il nostro o il mio limite più drammatico. Alla mia età potrei dire: fai finta di niente e goditi fin che puoi qualche libro, il pezzo di mare che vedi, gli amici che restano. Dopotutto, hai già dato, nel bene e nel male. Ma non ci riesco e mi viene un furore insensato che scarico in maniera frenetica nel lavoro. Mi illudo di trovare una luce, anche fioca, una strada pur sconnessa, una ragione ancora plausibile. Che non può essere oggi politica ma culturale. E poi penso a Napoli, alla vita sotto il vulcano. Alle forze, spesso imprevedibili, che li fanno somigliare. E mi chiedo se è questo che davvero volevo».