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Intervista a Linus: «L’estate in cui nacque un mito chiamato Deejay»
Nel 1991, a soli tre anni dalla “seconda estate dell’amore” (la prima fu nel ’67 a San Francisco), Radio Deejay cambiò musica. Fino ad allora aveva fatto ascoltare (e vedere con la mitica Deejay Television) agli italiani, la new wave inglese e i Duran Duran. Il “Deejay Time” condotto da Albertino da quel momento in poi trasmette solo dance: il meglio della house da club e della techno/rave europea. Linus (vero nome Pasquale Di Molfetta), direttore di Deejay da quasi venticinque anni, è protagonista della scena delle radio libere dai suoi inizi. E Deejay, a partire dal nome, è la prima emittente a cogliere la nuova tendenza che viene dall’underground e che, anche grazie alla forza che in quegli anni ha la radio, contribuisce a farla diventare fenomeno di massa.
Quanto è stata importante la radio in quel particolare periodo storico e cosa è cambiato oggi?
«Deejay si sta avviando ormai al quarantesimo anno di vita e per ogni decennio è stata una sorta di cartina di tornasole della società italiana. Così gli anni Ottanta sono stati quelli della “new wave”, mentre i Novanta sono stati sicuramente quelli della musica da discoteca, del Deejay Time e di Albertino, che conduceva quella fortunata trasmissione. La cosa incredibile se ci si ripensa oggi è che passavamo musica techno anche alla mattina! Del resto era una cosa coerente con il pubblico: le radio fino agli anni Novanta avevano un pubblico molto giovane mentre adesso è infinitamente più adulto perché i ragazzi hanno internet».
Che Italia era quella?
«Gli anni Novanta non avevano un’identità molto precisa. Se parliamo di fatti importanti quelli erano gli anni di Falcone e Borsellino ma forse proprio per quello, nella cultura di massa, c’era molta voglia di leggerezza, di disimpegno, molta voglia di divertirsi. La musica che io amavo era quella degli anni Settanta/Ottanta, la dance quindi non mi apparteneva pienamente ma era una novità e il nostro compito era passarla. Il grande boom delle discoteche infatti è proprio di quegli anni che per molti sono rimasti mitici».
A proposito: uno dei miti di allora è Ibiza.
«Sì, in realtà il mito di Ibiza nasce già a metà anni Ottanta, infatti la prima volta che viene celebrato a livello mainstream è con Sandy Marton e la sua People from Ibiza del 1984. Esplode nei Novanta».
Lei ci andava?
«Sì certo. Anche se la mia dimensione era più quella di Formentera: una versione più tranquilla e meno trasgressiva. Sono sempre stato un “bravo ragazzo”».
Che cosa succedeva a Ibiza?
«La discoteca lì fa un salto di qualità e diventa un’economia: dal Ku al Pascià, tutto è perfettamente organizzato e funziona. I club sono vere e proprie industrie dell’intrattenimento mentre da noi, a parte Rimini, Jesolo e qualche altra eccezione, non si è mai riusciti a creare qualcosa all’altezza e lo stesso vale per i festival che in Italia non hanno mai attecchito».
Ma lei la techno la ballava?
«Il dj diventa tale proprio per non ballare. Al massimo se ne sta in un angolo con un gin tonic in mano a guardarsi intorno ma sempre mantenendo un contegno professionale (ride, ndr). Io comunque ho sempre fatto la radio, a differenza di mio fratello Albertino, che invece faceva serate techno con migliaia di persone. Anche a Ibiza, appunto».
Che differenza c’è tra discoteca e rave?
«Il rave nasce come una manifestazione “pirata”, libera e per questo senza limite di orari, organizzata in luoghi particolari e, quando internet era agli inizi, basata sul passaparola. Nelle discoteche invece la parte più selvaggia era quella del cosiddetto “afterhour”: la musica poteva essere la stessa di un rave ma, nel bene o nel male, ti trovavi in un ambiente più controllato. L’idea alla base del rave è bella ma la libertà poi bisogna anche essere capaci di gestirla».
Cosa è rimasto oggi di quella cultura?
«Mi sembra che in questo momento ci sia meno voglia di fare gruppo. Alla fine il rave era una sorta di gigantesco falò sulla spiaggia dove la cosa bella era essere in tanti e stare insieme una notte intera a ballare. Oggi siamo tutti così concentrati sull’io che diventa difficile essere propositivi e cercare condivisione. Non a caso il momento in cui tutto iniziò venne battezzato come la “seconda estate dell’amore”. E fu creata proprio da dj inglesi che erano stati a Ibiza l’anno prima».
Quanto ha influito la radio e Radio Deejay in particolare nel diffondere la musica techno/ house nel nostro Paese?
«Beh noi abbiamo raccontato la parte un po’ più commerciale: facendo la radio eravamo l’ala più rassicurante, familiare. Le serate di Albertino con diecimila persone erano diventate un vero fenomeno che veniva studiato dai sociologi il cui mood può essere riassunto, e non a caso, da una frase di Jovanotti: “Mamma, guarda come mi diverto!”».
Il dj nasce in quel periodo: da qui veniva il vostro nome (per esteso, Deejay)?
«Sì, come figura professionale il dj nasce in quegli anni e diventa un lavoro vero, oggi per alcuni addirittura milionario. Il nostro primo slogan era infatti: “C’è un nuovo dj in città: la radio”».