La Stampa, 29 settembre 2018
Tre ragioni di allarme sul deficit
Mi ha fatto un po’ impressione vedere la foto di Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi che inneggiava alla vittoria. Vittoria su chi poi? Abbiamo spezzato le reni a Tria? Abbiamo convinto l’Unione Europea a darci i soldi per finanziare il cambiamento? No, abbiamo deciso di indebitarci di più. Insomma, non proprio un cambiamento per un Paese con un debito pubblico di 2300 miliardi. Ma quali sono i rischi? L’asticella del deficit è stata posta al 2,4 per cento per il triennio 2019-21. Che c’è di male? Il deficit resta sotto al 3 per cento delle regole europee e, in fondo, la Francia ha un deficit più alto del nostro. Ci sono però tre motivi per essere preoccupati.
Primo, i piani di rafforzamento dei conti pubblici sono stati accantonati, anzi ci si muove nella direzione opposta. Partendo da un deficit previsto all’1,6 per cento del Pil nel 2018, avevamo promesso l’anno scorso all’Europa che saremmo scesi allo 0,9 per cento nel 2019 e allo 0,2 per cento nel 2020, vicino al mitico pareggio di bilancio. Invece staremo fissi al 2,4 per cento. L’avanzo primario (il saldo di bilancio al netto della spesa per interessi) quest’anno dovrebbe chiudere all’1,7-1,9 per cento del Pil. Doveva salire al 2,6 per cento nel 2019 e al 3,3 per cento nel 2020, invece scenderà all’1,3 per cento. Secondo la Banca d’Italia occorrerebbe un avanzo del 4 per cento del Pil per ridurre il debito pubblico a una velocità adeguata. Già, il debito pubblico. Che accade al rapporto tra debito e Pil se il deficit sta al 2,4 per cento? Secondo le mie prime stime, il prossimo anno il rapporto dovrebbe restare invariato su livelli intorno al 131-132 per cento del Pil, o scendere di poco. Secondo le regole europee avrebbe dovuto scendere di tre punti percentuali. C’è chi dirà che la mia analisi non tiene conto dell’effetto che l’aumento del deficit avrà sulla crescita del Pil. Ma ci sono due problemi. Un aumento del deficit dovuto soprattutto al reddito di cittadinanza e a maggiori spese per pensioni, se va bene, aumenta il livello della spesa e del Pil, non il suo tasso di crescita di medio periodo (il che richiederebbe un deficit crescente di anno in anno). Secondo, se lo spread e quindi i tassi di interesse aumentano diventa più costoso per banche, imprese e famiglie prendere a prestito, il che frena l’economia.
Secondo punto: le regole europee. Se con un deficit superiore al 3 per cento avremmo dato un sonoro schiaffo all’Europa, con un deficit del 2,4 per cento per tre anni, ci andiamo molto vicino. Se è vero quanto si è letto sui giornali, Tria stava negoziando un deficit dell’1,6 per cento per il 2019, un livello che la Commissione europea avrebbe potuto anche accettare dandoci ulteriore flessibilità. Niente da fare. La regola del 3 per cento sarà rispettata, ma non le altre: il deficit e il debito non scenderanno a una velocità adeguata. Che farà la Commissione di fronte a questa pianificata violazione? Probabilmente chiederà formalmente una revisione della legge di bilancio, quando questa sarà presentata a metà ottobre. Se, come probabile, il governo rigetterà questa richiesta la Commissione potrebbe raccomandare al Consiglio Europeo l’inizio formale di una procedura di deficit eccessivo, procedura che potrebbe, seppure dopo un lungo iter, portare a sanzioni verso l’Italia. Non so se lo farà ma in ogni caso la tensione salirà.
Terzo punto: con un deficit fermo al 2,4 per cento del Pil resteremo l’anello debole della catena dell’euro. Gli altri Paesi prevedono una graduale riduzione del loro deficit in un periodo in cui l’economia europea è ancora in crescita ed è tempo di «mettere il fieno in cascina». Il Portogallo, Paese che fino al 2016 aveva un debito pubblico pari al nostro, lo sta riducendo rapidamente attraverso il contenimento del deficit (l’idea che il Portogallo abbia abbandonato politiche di prudenza nei conti pubblici dopo l’avvento al potere del governo socialista è una clamorosa bufala): il Fmi prevede un deficit dello 0,7 per cento del Pil quest’anno e dello 0,3 per cento del Pil il prossimo anno. Nel 2020 il rapporto tra debito e Pil dovrebbe scendere al 117 per cento, 13 punti in meno rispetto a fine 2016. Certo, la Francia ha annunciato un piccolo aumento del deficit per il 2019 (dal 2,6 al 2,8 per cento del Pil), ma l’aumento è una tantum (il deficit per il 2020 scenderà all’1,4 per cento) e la Francia ha un debito molto più basso del nostro, sotto al 100 per cento.
Che accadrà a questo punto? Se lo spread continuasse a crescere, la situazione andrebbe presto fuori controllo. Spero che questo non avverrà. Anzi, penso che non avverrà perché i mercati internazionali restano molto liquidi in un contesto comunque di crescita globale. Dipenderà anche dai toni che saranno usati nei prossimi giorni dagli esponenti del governo e dal dettaglio della manovra. Ma se la situazione tenesse nell’immediato, come ho sottolineato in altre occasioni, con un deficit intorno al 2 e mezzo per cento e un debito che non scende o scende poco resteremo vulnerabili rispetto a shock che potrebbero colpire l’economia italiana. Una recessione anche modesta importata dall’estero causerebbe un aumento immediato del rapporto tra debito pubblico e Pil e una crisi di fiducia che l’Italia avrebbe grosse difficoltà a superare. Non è una prospettiva rassicurante.