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 2018  settembre 29 Sabato calendario

«Così ho inventato Internet e la porterò su altri pianeti». Intervista a Vint Cerf

Dopo una conversazione Vint Cerf, sempre impeccabile in un completo a tre pezzi, con il fazzoletto nel taschino e la spilla sulla cravatta, porge al suo interlocutore il proprio biglietto da visita: “Vicepresidente di Google e Sommo Evangelista di Internet”.
La comunità informatica definisce Cerf il “padre di Internet”, l’ha premiato con il premio Turing nel 2004 e gli ha conferito una trentina di lauree honoris causa in tutto il mondo. Al meeting dei premi Turing di Heildelberg, da dove Cerf si trasferirà direttamente al Wired Festival di Firenze, ci siamo fatti raccontare il passato e il futuro della sua creatura.
Com’è diventato il “padre di Internet”? 
Dietro alle cose complesse non c’è mai solo una persona. Nel 1969 era già stata costruita la rete di computer del Dipartimento della Difesa americano chiamata Arpanet. Nel 1972 Bob Kahn entrò nel loro gruppo e notò che per essere usata militarmente, la rete avrebbe dovuto collegare non soltanto le comunicazioni via cavo dei computer, ma anche quelle via radio delle navi e via satellite degli aerei.
Alle origini c’era dunque un problema tecnico? 
Esattamente. Esistevano tre diversi protocolli di comunicazione, ciascuno con le proprie caratteristiche, la propria velocità di trasmissione e la propria frequenza di errori. E sorse il problema di farli parlare tutti fra loro, in maniera intercambiabile, mantenendo le varie reti di comunicazione intatte. La soluzione fu di scrivere un programma che dicesse ai computer quando e come collegarsi all’uno o all’altro sistema, e permettesse di passare in maniera indolore dall’una all’altra rete.
E qui lei entrò in scena?
Sì. Nel 1973 Kahn e io decidemmo di usare una specie di sistema postale, in cui le lettere contenevano le comunicazioni dei vari sistemi, e sulle buste stavano gli indirizzi delle varie reti a cui esse erano destinate. Nessuna di queste reti sapeva di essere stata connessa a una rete globale interconnessa, che divenne appunto Internet.
In che anno il sistema iniziò a funzionare?
Il nostro Protocollo per il Controllo delle Trasmissioni (tcp/ip) fu pubblicato nel 1974 e standardizzato nel 1978. Il 1º gennaio 1983 nacque ufficialmente Internet. Agli inizi connetteva solo gli Stati Uniti e alcuni Stati europei (Inghilterra, Germania, Italia), ed era limitato all’uso governativo.
Poco dopo iniziammo a usarlo in università. 
La National Science Foundation capì subito che si potevano collegare fra loro migliaia di istituzioni accademiche. Poi entrarono in gioco altre istituzioni, dal Dipartimento per l’Energia alla Nasa. Agli inizi il governo non permetteva di trasmettere comunicazioni commerciali, ma nel 1989 io riuscii a ottenere il permesso di connettere a Internet il primo sistema privato di posta elettronica. E la rete si aprì al mercato e al mondo.
Ma l’email non era ancora il World Wide Web. 
No, quello lo fece Tim Berners-Lee nel 1991, quando lavorava al Cern in Svizzera. Ma agli inizi nessuno se ne accorse, a parte due persone al Centro nazionale per le applicazioni dei supercomputer di Urbana-Champaign, che costruirono il primo browser: si chiamava Mosaic, mutò Internet in un rotocalco, e stimolò la diffusione della rete. Poi, quando la quantità di informazioni divenne difficile da gestire, arrivarono i motori di ricerca. Insomma, Internet non ha avuto un solo padre…
Ma grazie agli smart phone ha molti figli degeneri, che spesso sembrano solo dumb phonies. 
Però gli smart phone sono stati un’idea geniale! È stato Steve Jobs a pensare di integrare i cellulari con le macchine fotografiche e con la rete. Il tutto è diventato maggiore della somma delle parti. Sono passati solo undici anni dall’arrivo degli smart phone nel 2007, ma sembra un’era geologica.
Ma l’integrazione delle funzioni era già stata prevista nel 1995 da Bill Gates, nel libro La strada che porta al domani. E risaliva comunque ad Alan Turing, più di mezzo secolo prima. 
Ma c’è una bella differenza tra il dire e il fare. E Jobs non solo l’ha fatto, ma ha prodotto qualcosa che nessuno sapeva di volere. La Nokia aveva già ampliato il concetto di cellulare, ma Jobs ne ha prodotto una versione integrata e facile da usare, con schermi tattili e le icone.
Dove sta andando Internet? 
Verso l’“Internet delle cose”: cioè, la connessione non solo fra i computer, ma fra gli oggetti più disparati, dagli elettrodomestici alle auto. E verso un “Internet planetario”: l’estensione delle connessioni dalla Terra ai pianeti del sistema solare.
Si tratta soltanto di dire, per ora, o già di fare? 
Molto è già stato fatto. A partire dal 2004 abbiamo messo i prototipi dei protocolli interplanetari sui Rover che esplorano Marte. Nel 2005 abbiamo connesso la sonda Deep Impact che ha visitato la cometa Tempel 1. E nel 2010 abbiamo installato l’ultima versione sulla Stazione spaziale internazionale, addestrando gli astronauti a usarla.
Quali sono gli ostacoli tecnici da superare? 
Uno è il ritardo nelle comunicazioni, che diventa significativo a distanze cosmiche. Stiamo sperimentando trasmissioni laser ad alta velocità, e abbiamo fatto test consonde che orbitano attorno alla Luna e a Marte. Purtroppo non possiamo usare i Voyager, arrivati a una ventina di ore luce dalla Terra, perché la loro tecnologia è obsoleta per queste cose. Un altro problema è il fatto che i pianeti si muovono attorno al Sole, e le loro distanze relative cambiano continuamente. Il ritardo nelle comunicazioni è dunque variabile: tra la Terra e Marte va da tre minuti e mezzo alla minima distanza a venti minuti alla massima. I pianeti ruotano attorno a sé stessi, e questo provoca problemi se si trasmettono segnali da postazioni poste sulla loro superficie.
Succedeva anche nelle prime missioni lunari, quando la navicella passava dietro alla Luna. 
Esatto. Sulla Terra abbiamo tre grandi ricevitori, in Spagna, in California e in Australia. Su Marte abbiamo invece riprogrammato i due satelliti in orbita, che in origine mappavano il terreno, per ricevere le comunicazioni dai Rover e ritrasmetterle al momento opportuno. Faremo lo stesso anche su altri pianeti.
Vedo che lei non è solo un evangelista di Internet, ma anche il suo profeta. Ha mai sentito parlare del gesuita Teilhard de Chardin, e della sua nozione di “noosfera”? 
No. Ma il prefisso mi suona pericolosamente simile a quello della “noetica”, pseudoscienza propagandata da Edgar Mitchell, uno degli astronauti che misero piede sulla Luna. Io però preferisco rimanere con i piedi ben saldi nella scienza.