Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2018
La favola dell’Irlanda, da poveri a Paperoni globali
C’era una volta l’Irlanda, terra di migranti e Paese poverissimo che, ancora nel 1973, quando entrò nella Comunità economica europea, aveva un Pil pro capite pari al 64,2% della media. Oggi gli irlandesi figurano tra i più ricchi al mondo: nella classifica Fmi del 2018 sono quinti, con 79.925 dollari di Pil pro capite, addirittura davanti al sultanato del Brunei e alle spalle di Qatar, Macao, Lussemburgo e Singapore. Nella proiezione 2020, realizzata sempre dal Fondo monetario internazionale, Dublino perderà appena un posto, mantenendosi in un’onorevolissima sesta posizione, davanti alla Norvegia.
Eppure, dopo il boom a cavallo del terzo millennio che la trasformò nella Tigre celtica, l’Irlanda ha vissuto una gravissima crisi economico-finanziaria, che l’ha costretta a chiedere aiuto alla comunità internazionale. E ancora oggi, con la crisi brillantemente superata, a parlare con i cittadini irlandesi difficilmente ci si sentirà dire che si sentono nella top ten dei Paperoni mondiali, come peraltro hanno dimostrato punendo i partiti di governo alle ultime elezioni politiche, a dispetto di indicatori macroeconomici lusinghieri. Uno studio diffuso a maggio dall’Ufficio centrale di statistica irlandese mostra inoltre che un abitante dell’Isola di smeraldo su sei – il 16,6% – vive sotto la soglia di povertà. Come si conciliano questi dati?
La risposta è in un’annosa e dibattuta questione: il peso delle multinazionali nel calcolo del Pil irlandese. L’effetto distorsivo di questa presenza si è fatto sentire anche nella performance economica di questi anni di Dublino, uscita dalla crisi con ritmi di crescita sostenuti (più del 7% ancora l’anno scorso), ma in qualche caso incredibili, come accadde nel 2015 quando il Pil registrò un incremento del 26,3 % annuo, al punto da spingere il premio Nobel Paul Krugman a coniare la colorita definizione di “Leprecahun economics”, economia dei folletti.
Il prodotto interno lordo – la ricchezza prodotta in un Paese – e il prodotto o reddito nazionale lordo – il reddito a disposizione dei suoi residenti – sono misure per lo più simili; in Irlanda però sono significativamente diverse e il gap si è andato allargando nel tempo, proprio per effetto di una presenza sempre più massiccia delle multinazionali, attratte da un regime fiscale favorevole, a cominciare dalla corporate tax al 12,5 per cento. In concreto, a Dublino il Pil pro capite – per effetto dei salari dei lavoratori domiciliati altrove e di utili e dividendi rimpatriati dalle società straniere – è approssimativamente superiore del 20% al reddito nazionale lordo (era soltanto il 10% in più vent’anni fa).
Anche limitandosi al reddito nazionale lordo, in realtà, l’Irlanda rimane ben al di sopra della media Ue. Di qui la decisione della Banca centrale irlandese di depurare ulteriormente il dato da altri fattori legati alla presenza delle multinazionali, come per esempio il valore (consistente) dei diritti di proprietà intellettuale, arrivando a identificare il prodotto nazionale lordo modificato. Con questo correttivo – che l’Istituto nazionale di statistica irlandese calcola ma che non è il dato utilizzato nelle statistiche internazionali – il Pil viene decurtato di circa un terzo e si arriva a indicatori sulla ricchezza meno eclatanti (e anche a performance meno brillanti sul fronte della crescita e dell’indebitamento, che risulta decisamente più pesante).
L’Irlanda è un Paese che tuttavia continua a crescere e in cui la presenza delle multinazionali produce indubbi effetti positivi sulle condizioni economiche dei cittadini, come dimostrano i dati sul lavoro – che sfiorano la piena occupazione – e l’aumento deciso dei salari registrato negli ultimi mesi. Di qui la strenua difesa da parte di Dublino del sistema fiscale, da tempo nel mirino dei partner europei, che premono per un’armonizzazione delle tasse. Senza quell’appeal, l’economia dei folletti perderebbe il suo tocco magico.