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 2018  settembre 29 Sabato calendario

Intervista a Spike Lee

Una sola condizione, levate quella bottiglia dal tavolo: «Posso avere una San Pellegrino? Perché devo bere quest’acqua tedesca che porta il nome del Kaiser?». Sono passati oltre 30 anni dal successo folgorante di Lola Darling, e Spike Lee, che allora ne aveva 26, ha lo stesso look variopinto, solo che, al posto del ragazzo imbronciato degli esordi, poco amante di interviste e confessioni, c’è un signore di 61 anni, pronto a insegnare la cosa giusta agli studenti che seguono le sue lezioni, alle nuove generazioni distratte dai temi di fondo, e ai suoi due figli, Satchel e Jackson, di cui, non senza soddisfazione, illustra i traguardi: «Loro sono cresciuti, e io sto per festeggiare il mio venticinquesimo anniversario di matrimonio. Mia figlia Satchel sta finendo il College e Jackson sta studiando per laurearsi».
Quanto si sente mutato rispetto ai tempi degli esordi e alle speranze che nutriva, allora, per un mondo migliore?
«Sono fiducioso, ma la speranza e la fiducia non bastano a costruire il cambiamento, e infatti le cose non sono molto diverse da quell’epoca. Non serve sperare e guardare le stelle. Adesso il prossimo obiettivo importante è far sentire la nostra voce nelle elezioni presidenziali di metà mandato. Bisogna muoversi, mobilitarsi affinché le cose accadano, il che non vuol dire smettere di pregare: io continuo a farlo».
Lei è ormai un maestro del cinema. Qual è il concetto fondamentale che desidera trasmettere ai suoi studenti?
«Ho appena ripreso a tenere le lezioni. Quello che ripeterò in aula, anche quest’anno, sarà “sii te stesso”. È importante imparare dagli altri, è successo anche a me, il mio primo film era fortemente influenzato dall’esempio di Rashomon di Akira Kurosawa, regista che ho sempre idolatrato. Poi, però, ognuno deve essere in grado di trovare la propria strada, non c’è un solo modo di fare questo lavoro».
Alla Mostra di Venezia, dove ha tenuto una masterclass per Mastercard, la polemica sulle piattaforme digitali ha tenuto banco. Lei, che per Netflix, ha diretto «She’s Gotta Have it», cosa ne pensa?
«Sono contento che esistano Netflix e Amazon e altre piattaforme in grado di dare ai registi i soldi per lavorare, ma io sono vecchio stampo, e non mi piace l’idea che oggi i ragazzi finiscano per vedere sugli schermi dei cellulari grandi film del passato, nati per lo schermo. E comunque niente offre le stesse emozioni del vedere un film in una sala cinematografica».
Il suo «Blackkklansman» ha vinto il Gran Premio della giuria al Festival di Cannes e sta avendo ovunque successo, forse anche perché è un film molto adatto ai tempi che stiamo vivendo.
«Il progetto non era mio, ma del produttore Jordan Peele, me lo ha proposto, ed era il momento giusto per realizzarlo. Quel cavolo di Ku Klux KLan è assurdo. Il movimento politico “Alt-Right” è assurdo. I “Neo-Nazi” del cavolo sono assurdi anche loro. E così abbiamo portato nel film tutta quell’assurdità. Volevamo richiamare l’attenzione su quello che sta accadendo adesso, non solo in Usa, con Trump, il nostro “Agente Arancio”, ma anche in Europa, con Brexit, e con il fenomeno che vede ovunque il ritorno della destra al potere».
Come pensa che andrà avanti la presidenza Trump, potrebbero esserci eventi che la interrompano?
«Una delle due, o “impeachment” oppure la galera, o magari tutte e due le cose insieme. Chissà. Ma perchè tutto vada come deve andare ci vuole la protezione di Dio». 
Perchè è importante parlare adesso dei pericoli legati al razzismo?
«Perchè la storia ci ha dimostrato che le cose si ripetono. Che l’odio continua a guidare le azioni delle persone. Quello che sta succedendo oggi con gli immigrati, anche qui in Italia, non è un fatto nuovo, è già avvenuto a suo tempo con gli ebrei. Le autorità cercano di creare questo rifiuto, ripetendo alla gente che tutto il negativo viene da loro, dai rifugiati e dai migranti, ed è proprio quello che fecero i nazisti».
Nel suo film c’è una scena in cui Harry Belafonte rievoca la storia vera del linciaggio di Jesse Washington, al quale aveva assistito da ragazzo. È vero che quel giorno ha chiesto alla troupe di indossare lo smoking in onore di Belafonte?
«Certo, eravamo tutti genuinamente commossi. Lavorare con lui è stato un onore. “Blackkklansman” è un’analisi del mondo in cui viviamo. Un esame sulla battaglia culturale “Amore versus Odio”, le stesse parole che Radio Raheem portava sulle nocche in “Fa’ la cosa giusta”, le stesse dei tatuaggi di Robert Mitchum in “La morte corre sul fiume”. Amore versus Odio. Incroci le dita, e speri che la gente capisca».
Del film si dice che sia tra i possibili candidati agli Oscar 2019. Che cosa ne pensa?
«So che lo hanno scritto, ma io non ne parlo, se succede bene, ma parlarne porta sfortuna».