La Stampa, 29 settembre 2018
Di Maio e il richiamo del balcone
Bisognerebbe trattenerla questa smania di balcone, perché poi la memoria si fa suggestionare, e finisce per forza lì, se non altro per pigrizia. È venuto in mente a tutti il balcone di piazza Venezia, ma fu proprio quell’altro, quello da cui si è affacciato Luigi Di Maio coi suoi ministri, il primo balcone di Sua Eccellenza il presidente del Consiglio (e futuro Duce) Benito Mussolini. Ogni tanto, all’inizio degli Anni 20, sotto le finestre di Palazzo Chigi arrivavano dei camerati con bandiere e gagliardetti a rinfocolare il già impetuoso capo, che tutto soddisfatto usciva a salutare. E siccome i gruppuscoli divennero schiere e poi folle, e chiedevano l’arringa, lui ci prese gusto e si trasferì sul balcone laterale, detto la Prua d’Italia, da dove conservava il dominio della piazza, di via del Corso, di largo Chigi, e vedeva il consenso crescere metro dopo metro. Poi i metri non bastarono più, e venne l’idea di piazza Venezia, ampia come la potenza del Fascio e squadernata sulla gloria dell’Impero. E lui, l’ultimo dei Cesari, aveva il suo popolo a portata di mano, in un rapporto fisico, diretto e palingenetico che questo secolo ha gioiosamente ereditato dal Novecento.
Non è per dire che sarà la medesima progressione di Di Maio, piuttosto per segnalare che durante la Repubblica la smania di balcone s’era annacquata proprio per gli imbarazzanti precedenti storici. Il balcone di Palazzo Venezia è da allora impraticabile, e al cronista cui fu concesso il privilegio di godere della vista sul «cielo della nostra Patria» venne raccomandato di restare un po’ discosto, per non dare scandalo. Si ricorda giusto Giovanni Spadolini che colto dall’entusiasmo impegnò la Prua d’Italia sessant’anni dopo Mussolini, e persino col tricolore in mano; ma era l’anno dei Mondiali dell’82, e il premier, che non capiva nulla di calcio, era entrato due volte consecutivamente in una riunione raccolta attorno alla tv accesa, e nell’istante esatto in cui Paolo Rossi segnava due dei tre gol rifilati al Brasile; così si sparse la voce che Spadolini era più di un leader, era un amuleto, e lui se ne persuase e alla vittoria successiva (semifinale con Polonia) osò l’inosabile. Sono frivolezze. Dettagli. Nel 1976 Enrico Berlinguer salì sul balcone di Botteghe Oscure per annunciare che un italiano su tre vota comunista. Nel 2014 Matteo Renzi fece ciao ciao con la manina da una finestra di Palazzo Chigi. Stavolta, invece, la smania di balcone è di nuovo quel fremito irresistibile, è un braccio teso al popolo direttamente dalle stanze del potere, come se i portoni fossero stati spalancati d’istinto e d’impeto, la struttura è smantellata, il Palazzo d’Inverno è preso, i cospiratori sloggiati.
Corsi e ricorsi
Ma non è, nemmeno qui, per tracciare un parallelo fra questo governo, già così frenetico e infiammato dalle folle digitali di Facebook, e le dittature del secolo scorso, sebbene siano le dittature a issarsi sui balconi e sui piedistalli, per poi tracollare rovinosamente. Sennò ci giocheremmo l’ultimo Nicolae Ceausescu che, a quattro giorni dal Natale del 1989, affrontò il suo ultimo balcone e - meraviglie dei ricorsi - annunciò aumenti salariali, pensionistici e dei sussidi per l’infanzia, e ragguagliò sugli scontri di Timisoara provocati da sabotatori di destra e da infiltrati dell’imperialismo, ma la gente era stufa di favolette e di complotti planetari, e lo lasciò terreo in una salva di fischi. Ci giocheremmo Fidel Castro e il suo balcone di Santiago de Cuba: la rivoluzione è fatta! Ci giocheremmo anche Hugo Chávez per il sublime motivo che il suo balcone di Caracas si chiamava così cinquestellamente Balcone del Popolo. E naturalmente ci giocheremmo Evita Perón, che non era certo un dittatore, ma ogni domenica mattina dava appuntamento sotto al balcone della Casa Rosada ai descamisados di cui si era eletta testa, braccio e cuore.
Allora si preferisce spararla grossa, ma grossa tanto, e lo diciamo: il balcone di Di Maio con indice e medio sparati a V di Vittoria era piuttosto il balcone di Whitehall da cui, l’8 maggio 1945, Winston Churchill mostrò la sua di V: la Seconda guerra mondiale era finita, il nazismo era sbaragliato. Certo, lui aveva sconfitto Adolf Hitler, non Giovanni Tria, e aveva promesso lacrime, fatica, sudore e sangue, non il reddito di cittadinanza, ma il punto forte di Di Maio non è il senso delle proporzioni. Sembra impegnato a iscrivere nel marmo una biografia immaginaria: mentre stendevano il contratto disse «stiamo facendo la storia», mentre schierava la Raf contro il Mef (il ministero di Tria) diceva «aboliremo la povertà», l’altra sera mentre rispolverava l’epica rivoltosa del balcone ha gridato «ce l’abbiamo fatta», e stava parlando di un prestito nemmeno agevolato.
Ecco, le suggestioni di cui parlavamo all’inizio sono parecchie: se ci si vuole inquietare c’è di che inquietarsi, se si vuole indugiare nello spropositato gli spropositi si trovano, ma infine ce n’è uno che più di tutti ricalca il balcone di Di Maio: è il balcone da cui Fantozzi si cala per prendere l’autobus al volo. L’autobus passa, lui prova ad aggrapparsi e tira giù l’ultimo passeggero, e l’ultimo tira giù il penultimo, e così via finché tutti quanti i passeggeri sono stati sbalzati a terra. E il guaio è che intanto l’autobus non s’è fermato.