«Non potevamo suonare in America, dal 1965 il sindacato dei musicisti ci aveva tolto il permesso di suonare dal vivo, perché eravamo rissosi e allergici alle regole. Inoltre avevamo problemi con il management e problemi tra noi. Questo bloccò la nostra carriera: Beatles e Stones conquistarono gli Usa e noi temevamo che la nostra storia fosse arrivata al termine. Allora decisi che sarebbe valsa la pena pensare più in grande, e iniziai a scrivere un pugno di canzoni vere, che parlavano di gente vera, di posti veri, di luoghi e persone che avevo incontrato e conosciuto. Mi interessava qualcosa che alzasse il velo della "swinging London" e mostrasse un’Inghilterra diversa, più semplice e naturale».
Un disco controcorrente in pieno 1968?
«Il mondo era in fiamme. C’erano problemi ovunque, tensioni, paure, la guerra del Vietnam, la Cecoslovacchia, la Francia. Da noi era tutto più sfumato, la "swinging London" era un modo per distrarre i giovani da quei problemi politici. Non credo fosse un disco controcorrente per i contenuti: il mondo non poteva restare com’era, c’era davvero bisogno di un grande cambiamento, ma io pensavo che questo non dovesse portare a cancellare i nostri valori, le nostre radici. Soprattutto quelle popolari. La rivoluzione era importante: c’è una bellissima frase in Il terzo uomo di Orson Welles che dice "L’Italia ci ha messo cento anni di rivoluzioni per produrre Michelangelo. La tranquilla Svizzera cos’ha prodotto?"».
Era anche lei che aveva bisogno di sfuggire agli obblighi degli "hit singles"?
«Era l’ultimo disco della band originale, per me era la mia dichiarazione finale. Volevo fare qualcosa destinata a restare nel tempo. Nulla svanisce più rapidamente della moda, e io non volevo essere di moda. Village green è lontano dal suono duro e elettrico di quell’anno».
Era anche il modo di avvicinarsi alla canzone d’autore, seguendo la lezione di Dylan…
«In qualche modo Dylan ha influenzato tutti noi. Ma io non seguivo il suo stile, il suo flusso di coscienza. Volevo scrivere in maniera semplice, con sincerità, innocenza, esprimermi senza la paura di essere ordinario celebrando l’ordinarietà».
Un concept album?
«In un certo senso sì, perché ruota attorno a un unico concetto, quello della vita di uno di quei piccoli "village green" che il tempo sfiora ma che per molti versi non cambia. M’interessava, partendo da spunti reali, catturare la fragilità e la sanezza di quei luoghi. Era un disco fragile ed emozionale in un momento in cui tutto esplodeva».
Nella ristampa c’è anche "Time song", che nel 1973 i Kinks eseguirono per celebrare l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato Comune europeo.
«La canzone fu usata come avvertimento per il tempo che stava per scadere per il vecchio impero britannico, "festeggiando" l’unione nel Mercato Comune e l’ingresso in una nuova era. Non ha mai fatto parte dell’album Preservation: Act I del 1973: la registrammo poche settimane dopo l’uscita del disco. Mi sembra abbastanza toccante e appropriata per essere pubblicata in questo momento nella storia britannica».
E ora cosa ha in mente di fare?
«Faccio ancora molte cose, recentemente ho suonato ai Proms alla Royal Albert Hall con orchestra e coro, ho scritto molto materiale nuovo…».
Si parla di una possibile reunion con suo fratello Dave e i Kinks.
«Se venissero fuori cose nuove e belle, se il materiale fosse davvero buono, non vedo perché no. Forse non un album intero, ma cinque o sei canzoni magari sì».