Corriere della Sera, 29 settembre 2018
Intervista a Charles Leclerc, il futuro pilota della Ferrari
«Che cosa beve? Le prendo dell’acqua, té freddo o Coca-Cola?». Charles Leclerc è un ragazzo educato e gentile, si avvicina al frigo del motorhome e poggia le bottigliette sul tavolo. Sorride e gesticola molto, ti fissa dritto negli occhi e parla un italiano perfetto con un inconfondibile accento francese. Ma quando sale in macchina diventa ferocissimo. La promozione in Ferrari dal prossimo anno al posto di Kimi Raikkonen è il «sogno che si è avverato del bambino che giocava con le macchine rosse sul terrazzo di Montecarlo guardando quelle vere sfrecciare». Dopo essere stato «in orbita» per la gioia sta metabolizzando il viaggio verso Maranello – «per adesso è ancora lontana» —, e anche se non può non pensarci ora deve chiudere bene con l’Alfa-Sauber le ultime sei gare. «Un team che mi ha dato tanto e a cui devo molto». A vent’anni avverte l’emozione e il peso della responsabilità, è il secondo pilota più giovane di sempre nella storia del Cavallino. È il primo del vivaio ad arrivarci, una soddisfazione doppia.
Dove ha imparato a parlare così bene italiano?
«Nell’ambiente dei kart, il 99 per cento delle gare e delle squadre sono da voi. Avendo passato la maggior parte del tempo in Italia è stato un processo naturale».
Nato a Montecarlo, conosce personalmente il principe Alberto di Monaco. Vi siete sentiti dopo l’annuncio del passaggio alla Ferrari?
«Sì, era contentissimo della novità. Mi segue da moltissimi anni. Ci vediamo abbastanza spesso, adesso ancora di più».
Che le ha detto?
«Mi ha fatto i complimenti, ha detto che era felice per me e che è un motivo d’orgoglio per tutta Monaco. È stato bellissimo ascoltare le parole del principe».
Che sensazioni ha provato nel correre un Gp a casa sua? Non capita a tutti...
«Significa tornare dove sei nato, trovare gli amici e quelli che ti conoscono da sempre».
Lei è molto severo con se stesso, come giudica il suo debutto in Formula 1? Quale è stato il momento migliore?
«Difficile sceglierne uno, la cosa più positiva è che c’è stata sempre una progressione. Anche se nelle ultime cinque gare prima di Singapore siamo stati un po’ sfortunati con due incidenti e un problema al pit stop. Però ripensandoci il sesto posto di Baku me lo ricorderò parecchio».
Ma è contento o no?
«Felicissimo. Pensavo di crescere più gradualmente, che ci volesse un po’ più di tempo».
Non è da tutti nemmeno ricevere i complimenti di Lewis Hamilton.
«Già, uno come Lewis che parla bene di me. Che onore».
Raccontano che nei momenti chiave, prima delle qualifiche e della gara, lei entri in una specie di trance. Che riesca a isolarsi completamente dal mondo esterno. Come avviene?
«In tanti me lo dicono, mi vedono diverso in quei momenti. Ma io a dire il vero non me ne accorgo. Di sicuro parlo molto meno perché ripasso tutto quello che devo fare in macchina. Entro in una specie di bolla dove penso solamente a fare il tempo e ad andare più veloce».
Ha iniziato ad allenare la testa da giovanissimo, con mental coach e programmi specifici. Il suo segreto è lì dentro?
«Non lo so. Però secondo me per qualunque atleta è importante farlo. La testa è l’80 per cento del pilota, se uno non ce l’ha non arriverà mai in Formula 1. Ci ho lavorato tanto perché era una mia debolezza quando ero piccolo. Prima lo fai e prima migliori, a quell’età assimili i concetti più velocemente. Io ho seguito i programmi di Formula Medicine e poi quelli della Ferrari Driver Academy».
E che cosa ha scoperto?
«Ho imparato soprattutto a gestire le emozioni, prima era più difficile per me. Poi sono cresciuto, passando purtroppo anche attraverso dei lutti. Ho perso il mio amico Jules Bianchi (il pilota della Marussia morto per le conseguenze dello schianto al Gp di Suzuka nel 2014, ndr). Per me era come un fratello maggiore. E poi l’anno scorso mio padre. Queste tragedie mi hanno reso molto più forte».
Che cosa è rimasto di quel bambino che girava sui kart a Brignoles?
«La voglia di vincere e la determinazione. Ho sempre lavorato tanto con un solo obiettivo in mente: salire sul gradino più alto del podio».
Oltre alle corse, da un po’ di tempo ha iniziato a fare anche servizi fotografici di moda. Su Instagram ha pubblicato immagini patinate, vuole imitare Hamilton?
Ride. «Un po’ come a Lewis anche me piacciono moda e musica».
Anche la musica?
«Sì, suono chitarra e pianoforte. Non c’è modo migliore per rilassarsi».
Che cosa suona?
«Roba mia, mi piace inventare. Detto così sembra che sia un fenomeno ma non è vero».
Viaggi? Se le regalassero un biglietto per lo spazio ci andrebbe?
«Visto che ho un po’ paura dell’aereo magari ci penserei un attimo...».
Ma come, va a 340 all’ora in macchina e ha paura di volare?
«Diciamo che avevo paura quando ero più piccolo, adesso per fortuna mi è un po’ passata anche perché devo prendere l’aereo tutti i giorni. Mettiamola così: nello spazio ci andrei, ma non è che ci si potrebbe arrivare in un modo diverso da un razzo?».
Credo di no, restiamo a terra. René Rosin, il suo ex team principal in Formula 2, ha detto: «Charles ogni anno fa una scommessa con se stesso per migliorarsi». Ha già pensato a quella dell’anno prossimo?
«Mi piace mettere l’asticella più in alto possibile, così se non ce la fai a superarla almeno ti avvicini. In questa stagione dovevo essere realistico, non potevo dire: “Voglio il titolo”. Dovevo crescere con la squadra e ci sono riuscito».
Ma non ha risposto, dove la mette l’asticella nel 2019?
«Più in alto di quest’anno, scriva così. Non dite che vado per vincere il Mondiale, anche se mi piace pormi degli obiettivi molto elevati».
Con Sebastian Vettel poi vi siete parlati. Ha ricevuto una sua chiamata?
«No, ci siamo visti ai test a Le Castellet. Abbiamo parlato un po’ e mi ha detto “bravo”».
Chi lo vince questo Mondiale? Seb ha ancora speranze?
«Anche se ci sono 40 punti di distacco, secondo me la partita non è ancora chiusa».
Se non fosse diventato un pilota che cosa le sarebbe piaciuto fare?
«O ingegnere nel motorsport perché mi piace la matematica. Oppure architetto, tutto ciò che è design mi interessa».