Corriere della Sera, 29 settembre 2018
Perché Leopardi può salvarci dalla retorica
Seguivamo l’altra sera un dibattito televisivo sui giovani condotto da Sergio Zavoli, tenuto da una dozzina di eminenti personalità. C’erano tra loro cravatte, maglioni, farfallini; c’erano crani levigati, barbe, folte chiome; c’erano presidenti e segretari, filosofi, ambientalisti, giornalisti, sociologi. Il tema era: i giovani e l’impegno politico, e si può immaginare la varietà dei pareri, la vivacità dei contrasti. Reciproche accuse e mutui rinfacciamenti volavano, senza trascendere, da poltroncina rossa a poltroncina rossa: muro di Berlino, anni di piombo, pacifismo, mafia, posti di lavoro, volontariato e via dibattendo, con toni (e primi piani) che andavano dal ragionevole al passionale, dallo sdegnoso all’indignato. Ma fra tante dissimiglianze, nessuno dei partecipanti si è privato del suo bravo «farsi carico».
Questa frase-spia ha cominciato quasi subito a lampeggiare come quella dell’olio sul cruscotto. «Ma allora» dice uno «bisogna che i partiti si facciano carico...». E poco dopo un altro: «Se noi non sappiamo farcene carico...». E prontamente un terzo: «Quando le istituzioni si faranno carico...». E di rimando un quarto: «Veramente spetterebbe a voi farvi carico...».
Non era una congrega di tromboni, tutt’altro, né di ipocriti cercatori di prossimi voti. Quei parlatori parlavano con evidente convinzione e una stringatezza insolita per tal genere di show, da uomini avvezzi ad agire, organizzare, dirigere, perfino pensare. Ma il linguaggio li tradiva, li omogeneizzava. Da destra e da sinistra, da nord a sud, apparivano tutti spalmati della stessa nutella lessicale, le prospettive, il dialogo, lo scollamento, la concreta partecipazione in prima persona, eccetera eccetera.
È una retorica datatissima ma che temiamo ormai immortale, tanto si è ormai diffusa tra insegnanti e burocrati, preti e sindacalisti, cantanti e calciatori, tutti quanti incessantemente impegnati a farsi carico di qualcosa, di qualcuno. Ci vorrebbe una inimmaginabile «rivoluzione culturale», una radicale picconatura di questo subdolo muro che continua a dividere l’Italia e forse l’Europa intera tra il serioso, volonteroso vaniloquio post marxiano da una parte e (per reazione inevitabile) lo sberleffo dozzinale, lo sconcio turpiloquio dall’altra.
Ma come spiegare Corot a un cieco, Rossini a un sordo? Come far capire che il buon samaritano esce dal Vangelo nell’istante in cui concepisce e definisce il suo gesto di carità come un «farsi carico»? Se si dicesse a questi caricofacenti sparsi tra Montecitorio e il Vaticano, tra l’Università e la Rai, che la parola è tutto, che tutto è cominciato e comincerà sempre di lì, si otterrebbe al più un benevolo sorriso per il gustoso paradosso.
A volte ci tenta l’idea della maniera forte: un elenco di cliché assolutamente vietati, di frasi fatte che comportino il licenziamento in tronco, l’esilio, il confino, i lavori forzati. Ci scoraggia il pensiero che già dopo un mese sarebbe tutto un Gulag dalle Alpi alla Sicilia.
Eppure un orecchio allergico al luogo comune non è affare soltanto dei letterati; senza saperlo ne hanno disperato bisogno anche gli educatori, i politici e quanti si fanno carico della condizione dei giovani, la cui categoria è appunto, per cominciare, un untuoso luogo comune del più o meno ultimo secolo. Dove sono «i giovani» in Machiavelli? C’è una sola pagina di Alfieri, di Manzoni dedicata ai «giovani»? E che ne dice in merito Leopardi? Un solo grido: «Oh giorni orrendi in così verde etade!». Che riguarda un solo giovane, lui, e insieme tutti i giovani, di tutti i tempi. Ma nessun altro l’altra sera si è fatto carico di citarlo.